domenica 30 settembre 2012

« Le coup de tête de Zinedine Zidane »

di Serena Di Giovanni



Ormai è noto: la celeberrima testata di Zidane a Materazzi nei mondiali del 2006 si è fatta scultura. L’opera bronzea, realizzata dal franco-algerino Adel Abdessemed, è alta più di cinque metri e sarà esposta fino al 7 gennaio nella piazza antistante al Centre Pompidou di Parigi. Svariati ed eterogenei sono stati i commenti da parte dei giornalisti e dei lettori che si sono interessati alla notizia. Il Sole 24 Ore (http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-09-28/elogio-sconfitta-testata-zidane-145726.shtml?uuid=AbFGT5kG), ad esempio, intitola il suo pezzo dedicato al famoso “coup de tête”, “Elogio alla sconfitta. La testata di Zidane a Materazzi si fa monumento” , e rimarca l’ironia dei francesi, inclini una volta tanto a ridere delle proprie disfatte. Scrive Giuseppe Ceretti, autore del pezzo, che :

“L'autodafè del campione di allora, paragonato ai tuffi e alle sceneggiate che sempre più caratterizzano i nostri incontri e al costante tentativo di ingannare gli arbitri, con relative vergognose scene di giubilo quando la truffa va a segno, restituisce il calcio a una dimensione popolare, ma spontanea e senza secondi fini. Il coup de tête è un atto altamente riprovevole, ma resta un grave errore che si paga in proprio e riporta tutti noi, dai campioni sino ai brocchi dei campetti, alla terrena dimensione dell'istintiva reazione al fallo che ti manda a gambe levate e per il quale non c'è bisogno di nessuna prova tv”.

Il giornalista si sofferma soprattutto sull’aspetto “calcistico” della questione, ignorando quasi completamente il problema dell’attribuzione di un valore artistico a un’opera che, seppure controversa, ha trovato comunque collocazione davanti al Centre Pompidou, noto museo di arte moderna e contemporanea di Parigi. E se Il Messaggero (http://www.ilmessaggero.it/sport/calcio/parigi_zidane_materazzi_testata_italia/notizie/221846.shtml) dedica all'episodio poco meno di dieci righe, altre testate giornalistiche, più o meno conosciute, si interrogano sull’effettiva qualità di un’opera da molti definita “non certo un capolavoro”, ma il cui originale, lo ricordiamo, è stato esposto alla galleria David Zwirner di New York a inizio 2012, in occasione della mostra ‘Qui a peur du grand méchant loup ?’ (Chi ha paura del lupo cattivo?). Del resto, proprio al Centre Pompidou sarà presto dedicata ad Adel Abdessemed una retrospettiva con esposti video, foto, sculture, disegni e installazioni ispirati alla violenza nel mondo. 
La rassegna, prevista dal 3 ottobre al 7 gennaio, mostrerà al pubblico la personale ricerca del franco-algerino, principalmente influenzata “by the disaster of contemporary history”. Dal 2000, quando compare nella scena artistica, Adel Abdessemed predilige, infatti, un linguaggio figurativo in grado di esprimere le violenze del mondo contemporaneo, con la pretesa “di toccare il reale”, senza però rappresentarlo. Realizza quindi opere come Practice Zero Tolerance (2006), un calco in terracotta di un’automobile vandalizzata durante le rivolte del 2005 nelle banlieue francesi, che, oltre ad alludere alla politica “di tolleranza zero” messa in atto dall’Europa e dagli Stati Uniti, suggerisce tensioni psicologiche ben più profonde. In questa e in altre realizzazioni l’artista raccoglie i segni di violenza manifesti nel mondo per trasformali in sintagmi cosmici; parte dal reale per trasfigurarlo, stilizzarlo o “mitizzarlo” in forme che rimangono nella memoria collettiva. La sua attività:

“is deployed like an ornament, drawing circuits whose meaning and orientation are revealed only in a system of symmetrical or asymmetrical repetitions, variations and inflexions. His works are full of complex references that cannot be regarded as strictly contemporaneous: references to minimalism, to the Wall Drawings of Sol LeWitt or more distantly, to Géricault, to the tragic and burlesque pessimism of Goya or to Mathias Grünewald by which Abdessemed was very explicitly inspired in the four Christ de Décor. Lastly, Adel Abdessemed's pieces are borne by a dreamlike power. In the same way as, in Freudian theory, the previous day provides the sleeper with the material for his dream, – what Freud calls "the day of the dream" – the present provides Abdessemed with the material for his pieces, which will then undergo a process of transformation” 
(http://www.centrepompidou.fr/Pompidou/Manifs.nsf/AllExpositions/4C29FAA5AB80502EC1257A170045A45B?OpenDocument&sessionM=2.2.2&L=2).

Quale simbolo della violenza fisica e verbale nel mondo calcistico, cui ormai siamo purtroppo assuefatti, anche Le «coup de tête» de Zinedine Zidane meriterebbe forse, alla luce di quanto esposto, una maggiore considerazione di quella che finora ha ricevuto dai media e dal pubblico (http://www.globartmag.com/2012/09/27/adel-abdessemed-statua-testata-zidane-materazzi-mondiali-parigi/). Il deprecabile gesto di Zidane è qui tradotto, infatti, in un’opera quasi “epica” e “mitologica”, che nella sua imponenza fisica ricorda alcuni dei più grandi capolavori rinascimentali, manieristi e barocchi, mentre nella maschera dal volto deformato e caricato di Materazzi rievoca da vicino la ferocia di alcuni dipinti dello spagnolo Francisco Goya (vedi Saturno divora i suoi figli , 1823, al Prado di Madrid), tra i pittori preferiti dal franco-algerino. 


F. Goya, Saturno divora i suoi figli, 1823, Madrid, Museo del Prado. 


sabato 29 settembre 2012

Il fantastico mondo di KUMI Yamashita


Difficilmente un’artista mi colpisce come KUMI Yamashita, giapponese che realizza ritratti utilizzando chiodi e filo. Le si potrebbe obiettare un’eccessiva tendenza al ‘naturalismo’, alla ‘tradizione’, in un momento storico in cui il mondo dell’arte è alla ricerca perpetua dell’idea ‘originale’,  stravagante, ironica, bizzarra, a svantaggio, in molti casi, dell’idea del ‘bello’, per dirla con Platone. Ma osservando le sue istallazioni si capisce subito che siamo di fronte a un’artista a ‘tutto tondo’ , che unisce e fonde insieme componenti variegate: la creatività e l’unicità dell’idea con l’abilità tecnica che ci vuole per realizzarla, senza rinunciare al godimento estetico dell’oggetto così concepito.
Dalle origini semplici, KUMI Yamashita ci invita a rivalutare il rapporto imprevedibile tra ciò che ci aspettiamo di vedere e la nostra percezione attuale. Gran parte delle sue opere è data dalle cose di uso quotidiano (filo, chiodi, carte di credito). Singoli frammenti collegati insieme possono creare un’ombra, e un semplice pezzo di carta può determinare una varietà infinita di profili. I materiali prescelti, i media utilizzati, vanno oltre i confini tradizionali. Impronte su un foglio compongono una faccia; un singolo filo costruisce, attraverso i chiodi, un ritratto sottilmente modulato. Con grande attenzione ai dettagli, le opere di Yamashita sono complesse e precise, senza perdere però quell’elemento di umanità che le contraddistingue.


venerdì 28 settembre 2012

I Martedì critici: Luca Maria Patella


Molto si potrebbe dire di Luca Maria Patella, precorritore dell’arte concettuale e della Land Art e ospite ai Martedì Critici (http://imartedicritici.com/) lo scorso martedì 25 settembre. La sua attività artistica inizia nella metà degli anni Sessanta, dopo un’importante formazione scientifica, elemento fondamentale del suo originalissimo eloquio figurativo. Autore delle prime “manipolazioni preconcettuali” con la macchina fotografica, Patella è tra i primi a cimentarsi nella cinepresa e a ispezionare e sperimentare l’ambiente multimediale e interattivo con finalità estetiche. Si attiva quindi nelle più svariate discipline artistiche: dalla performance al suono, dalla parola all’installazione di grandi oggetti-scultura come “test proiettivi”, dalla scrittura al Libro. 
Partendo dal ready made duchampiano e dalla simultaneità futurista Patella crea un linguaggio sinestetico, che comunica in modo polisensoriale. E come uno scienziato di fronte al suo esperimento, uno psichiatra davanti al suo paziente, egli attua vere e proprie operazioni, basate sulla ricerca, sulla documentazione e l’esperienza, visiva, intellettiva e della percezione. Opere come “Mare firmato” (1965) sono frutto di questa ricerca sperimentale, che sul finire degli anni Sessanta conduce l’artista alla realizzazione di un filmato e una serie di fotografie intitolate “Terra Animata”, con misurazioni del terreno, a metà fra arte concettuale e Land Art. Non sono evidentemente sconosciute a Patella le nuove teorie novecentesche sui principi fondamentali della percezione visiva, né la psicologia della Gestalt. Non a caso sempre in quello stesso periodo realizza una serie di opere che hanno come comune denominatore la dicitura “Analisi del comportamento”.
Negli anni ’69-’70 Patella si avvicina all’arte multimediale, una ricerca che sfocerà in diverse installazioni “parlanti” e in alcune performance. Si accentua, negli anni Ottanta, il suo interesse per gli aspetti psicanalitici, per le simbologie, i giochi di parole, i motti di spirito; un’attenzione testimoniata in particolare dai “Lettini patelliani paraduchampiani” della Gnam di Roma, posti accanto ai letti di Duchamp, o dall’interesse per Diderot. L’importanza di queste ricerche emerge anche durante il colloquio con i due curatori de I Martedì critici, Alberto Dambruoso e Marco Tonelli; durante il talk, infatti, Patella si dice contro “ogni tipo di convenzione e circonvenzione” e rimarca il suo peculiare rapporto con la scienza e la psicanalisi. L’artista inoltre non manca di rilevare tre aspetti della sua concezione estetica: povertà, pulsione e pensiero, gli ingredienti alchemici alla base dei suoi complessi – ma non complicati - esperimenti artistici. 


giovedì 27 settembre 2012

I dipinti murali di San Giovanni a Porta Latina
Serena Di Giovanni, Silvia Di Summa 

Arco absidale e presbiterio

Il recupero dell’antico è il filo conduttore che lega San Giovanni a Porta Latina ai molti episodi monumentali di XI-XII secolo. Già emerso nella plastica architettonica, esso si rivela anche nella decorazione pittorica dell’edificio. Quest’ultima copre ancora parzialmente l’arco absidale e le pareti dell’avancoro, le due pareti della navata centrale e la controfacciata. Lacerti sono visibili nell’ambiente terminale della navata destra. Anche il portico doveva essere dipinto, come lasciano ipotizzare alcuni frammenti conservati in situ.
Al centro dell’arco absidale, in stato frammentario, è il Libro sigillato, un tempo verosimilmente posto sopra una cattedra sormontata da una croce gemmata e cinta da due angeli dalle mani velate. Accanto appaiono i quattro simboli degli Evangelisti muniti del Libro chiuso. Sui peducci dell’arco sono dipinte due figure stanti, da Styger identificate con Giovanni Evangelista (a destra) e Giovanni Battista. Il personaggio sulla destra sorregge un volume con l’iscrizione “in principio erat verbum”. In alto corre una greca multicolore e prospettica interrotta da riquadri, nei quali si affacciano busti di angeli dalle mani velate. Una ghirlanda avvolta da un nastro chiude verticalmente i lati corti dell’arco.
Le pareti laterali del presbiterio ospitano i ventiquattro Vegliardi dell’Apocalisse, genuflessi in direzione dell’abside e disposti su due file da sei. Tutti reggono corone gemmate sulle mani velate. In basso quattro edicole, estremamente lacunose, inquadrano gli Evangelisti. Di esse rimangono solamente i tituli e i simboli inseriti in timpani. Le iscrizioni consentono l’identificazione di Marco e Matteo a sinistra e di Luca e Giovanni a destra. I lati corti sono bordati dallo stesso motivo decorativo dell’arco absidale, mentre il fregio che in alto delimita la decorazione, è costituito da mensoloni abitati da elementi zoomorfi, fitomorfi e da esseri mostruosi.

San Giovanni a Porta Latina, interno, arco absidale. 

Navata

Lungo le pareti della navata centrale si snoda un ciclo vetero e neotestamentario composto da quarantasei riquadri; dalla parete destra, esso si sviluppa seguendo un andamento anulare. Il primo registro, costituito da una successione di diciotto scene tratte dal Vecchio Testamento, ha inizio sulla parete destra contigua all’abside, prosegue verso l’ingresso e continua sulla controfacciata e sulla parete sinistra, dove corre da sinistra a destra fino all’emiciclo absidale. Le due fasce inferiori non proseguono sulla parete d’ingresso, ma orizzontalmente dalla parete destra continuano nella corrispondente zona di sinistra, seguendo il medesimo ordine di svolgimento del primo registro; entrambe sviluppano trenta episodi tratti dal Nuovo Testamento. Le due scene limitrofe della Crocifissione e della Deposizione al Sepolcro costituiscono un’eccezione a questa norma: esse sono le due ultime raffigurazioni del terzo registro della parete destra, ma occupano anche lo spazio destinato ai riquadri del registro superiore, nel preciso intento di conferire maggiore enfasi e importanza agli episodi. Le scene sono tra loro separate mediante semplici fasce rosse profilate di bianco.

-              Parete destra

Il primo registro della parete destra comprende: La Creazione del Mondo, La Creazione di Adamo, La Creazione di Eva, Il peccato originale, La condanna dei Progenitori, La Cacciata dal Paradiso Terrestre e Il Cherubino di guardia al Paradiso. Il secondo registro presenta l’Annunciazione, la Visitazione, L’andata a Betlemme, la Natività, l’Annuncio ai pastori, l’Adorazione dei Magi.

-              Controfacciata

Il primo registro della controfacciata ospita le seguenti scene veterotestamentarie: Il Lavoro dei Progenitori, Il sacrificio di Caino e Abele, l’Uccisione di Abele, La condanna di Caino. Il secondo registro comprende: Il sogno di Giuseppe, La fuga in Egitto, La strage degli Innocenti, Cristo fra i Dottori, il Battesimo di Cristo, La Trasfigurazione. Difficile e molto dibattuta tra gli studiosi è invece l’identificazione delle due scene successive.
Nel registro inferiore della controfacciata, separata dalle sovrastanti scene bibliche da una larga cornice a fasce ondulate, è una versione abbreviata del Giudizio con Cristo Giudice tra gli angeli. Ai lati del Salvatore, assiso entro un clipeo, stanno due arcangeli con globo e cartigli, sui quali Styger e Wilpert leggevano versi rivolti ai beati e ai dannati. Due angeli per parte chiudono il registro. In basso, sotto i piedi del Cristo, è posto un altare con gli Strumenti della Passione.

San Giovanni a Porta Latina, controfacciata, Giudizio Universale. 

-              Parete sinistra

Il primo registro della parete sinistra comprende: L’ordine a Noè, L’entrata degli animali nell’Arca, Abramo e i tre Angeli, Il sacrificio di Isacco, La benedizione di Isacco, La lotta di Giacobbe con l’Angelo, Il sogno di Giuseppe. Il secondo registro presenta La Resurrezione di Lazzaro, un Miracolo di Cristo (lacunoso), l’Entrata a Gerusalemme, L’Ultima Cena/La lavanda dei piedi, il Tradimento di Giuda, il Trasporto della croce. Nulla rimane delle scene che intercorrono tra l’Entrata a Gerusalemme e la Crocifissione, la cui identificazione risulta possibile dalla loro posizione nel ciclo e dai confronti con i cicli di S. Urbano alla Caffarella e Ferentillo. Il registro prosegue con la Crocifissione, La Deposizione di Cristo nel sepolcro. Il terzo registro della parete sinistra accoglie L’Angelo al sepolcro, L’apparizione di Cristo alle Marie, L’andata ad Emmaus, la Cena in Emmaus, I due discepoli di Emmaus narrano agli apostoli l’apparizione, L’incredulità di san Tommaso, l’ Apparizione di Cristo agli apostoli sul lago di Tiberiade.

1.1            Note critiche

La decorazione di San Giovanni a Porta Latina è uno degli esempi romani di revival del modello tipologico basilicale paleocristiano, che ha i suoi prototipi in San Pietro in Vaticano e in San Paolo fuori le mura (V secolo), e che coinvolge diversi monumenti dell’Italia centro-meridionale tra XI e XIV secolo. In essa, tuttavia, si riscontrano molteplici variazioni rispetto ai modelli: il numero delle scene, la loro disposizione, l’andamento della sequenza narrativa, la scenotecnica e numerose varianti iconografiche all’interno dei singoli riquadri. L’interesse degli studiosi che si sono occupati dei dipinti è stato rivolto principalmente all’analisi delle fonti iconografiche, fondamentale per la comprensione dell’intero ciclo. Styger, Tronzo, Kessler e Viscontini inoltre hanno fatto notare la sua dipendenza dai prototipi paleocristiani e il suo inserimento nel cosiddetto ‘gruppo umbro-romano’.


Le iconografie apocalittiche dell’arco e del presbiterio
Parigi, Bibl. S. Genevieve, Evangeliario di Saint–Frambourg De Senlis, s. Giovanni Evangelista.
San Giovanni a Porta Latina, presbiterio, edicola con il simbolo di Giovanni.   

Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, Codex Aureus di Sant’Emmerano, fol. 6r, Adorazione dei Vegliardi.

Margaret Manion negli anni Settanta del Novecento mise in relazione i dipinti murali del presbiterio con le miniature dei Vangeli carolingi di Soissons, in particolare circa l’accostamento dei ventiquattro Vegliardi con gli Evangelisti (BNF, ms. lat 8850, fol. Ib). Più recentemente Fabrizio Crivello ha evidenziato come la greca abitata e le edicole sormontate da timpani, alternativamente semicircolari e triangolari, siano frequenti in età ottoniana. Lo studioso ha altresì ricostruito l’origine delle iscrizioni esegetiche dei quattro Evangelisti, ricollegando i tituli di Marco e Matteo al Carmen Paschale di Sedulio e quelli di Luca e Giovanni ai versi delle miniature del Codex Aureus di sant’Emmerano. Un evangeliario prodotto dalla scuola di Carlo il Calvo, oggi perduto ma forse giunto a Roma insieme con la Bibbia di San Paolo fuori le Mura, potrebbe aver ispirato i versi dipinti.

L’iconografia delle pitture dell’arco e del presbiterio è basata su Ap 4-5, i cui prototipi figurativi sono da riconoscere nella pittura romana di V-VI secolo. A Porta Latina, la traduzione figurata del tema è però caratterizzata da una contaminazione tra fonti diverse, rintracciabili non solo in esempi di pittura monumentale paleocristiana, ma anche nella produzione miniata di VI-X secolo. Inoltre, l’ipotesi di Krautheimer che vuole la chiesa fondata nel V-VI secolo, e la notizia di un suo rifacimento nell’VIII, inducono a ritenere che i soggetti apocalittici dell’Adorazione dei Viventi e dei Vegliardi, dei due Giovanni e degli Evangelisti, fossero già stati illustrati sulle pareti del presbiterio prima del XII secolo. È probabile che, nella nuova redazione romanica, essi siano stati ripresi e rinnovati attraverso fonti iconografiche più vicine nel tempo, soprattutto carolingie. Le edicole con gli Evangelisti e, particolarmente, le iscrizioni tratte dai versi del Codex Aureus di Sant’Emmerano sembrerebbero confermare questo ‘aggiornamento’. I versi, infatti, sono attestati a Roma unicamente a Porta Latina e nell’Evangeliario Laurenziano, prodotto in uno scriptorium dell’Urbe sul finire dell’XI secolo.
I soggetti apocalittici dell’arco e dell’avancoro, pur essendo ancorati alla tradizione locale, favoriscono inoltre alcune nuove e interessanti riflessioni. L’ordito figurativo pare restituire, a distanza di secoli, la tradizionale visione patristica e ticoniana di Ap 4-5, da leggere non come un’immagine della fine dei tempi, bensì come una rivelazione simbolica sull’insieme dei tempi della Chiesa, dall’Incarnazione (arco absidale/presbiterio), al ritorno di Cristo nel Giudizio finale (controfacciata). I simboli degli evangelisti e l’assemblea degli Anziani – composta dai patriarchi, dagli apostoli e da tutti i santi – sono un’immagine ideale della gerarchia ecclesiastica, che governa (nunc) e giudica attraverso il Cristo in vista del giudizio finale dei vivi e dei morti (tunc). Nelle pitture apocalittiche è possibile leggere un’ordinatio, originata dal perno cristologico delle rappresentazioni dell’arco e della conca absidale. In esse inoltre è facile individuare un riferimento preciso all’Incarnazione, comprovato dall’iconografia dei due Giovanni, dalle iscrizioni esegetiche del presbiterio e, forse, dalla rappresentazione, oggi perduta, della Vergine col Bambino in trono, un tempo probabilmente raffigurata nell’abside, come lascerebbe congetturare lo studio dell’evoluzione del tema nella pittura laziale di V-XIII secolo. Le tematiche cristologiche e mariologiche sono svolte, inoltre, dagli episodi dell’Infantia Salvatoris della navata e dalle Storie di Anna e Gioacchino e dell’Infanzia della Vergine nel pastoforio destro, che, pur facendo capo a una diversa cronologia, sono complementari al ciclo maggiore. L’Agnello/Verbo, qualora fosse stato rappresentato sulla chiave dell’arco di S. Giovanni, costituirebbe, assieme alla perduta rappresentazione della conca, il ganglio vitale dell’intero ciclo pittorico, come già a San Paolo f. l. m. e a San Pietro in Vaticano (V secolo). Il tema dell’Adorazione dei Viventi e dei Vegliardi è, in ogni caso, motore naturale di tutto il sistema figurativo, al pari dei primi programmi paleocristiani e di VI secolo. Gli Evangelisti sulle pareti dell’avancoro, in prossimità dell’altare, costituiscono poi un elemento di totale innovazione in uno scenario iconografico complessivamente già consolidato nell’orizzonte pittorico di V-XIII secolo. Esemplati sui frontespizi miniati, essi fungono da mediatori nell’interazione tra il Cristo/Agnello dell’arco absidale e l’assemblea dei fedeli sulla terra e, per questo, si configurano quali depositari della Buona Notizia. Underwood, Kessler e altri studiosi hanno sostenuto in modo convincente l’ipotesi secondo la quale, nei vangeli carolingi e nei frontespizi del Nuovo Testamento – cui la decorazione di Porta Latina fortemente rimanda – gli Evangelisti avessero anche una funzione esegetica e teologica, tesa a trasmettere concetti sviluppati nella letteratura patristica con riferimento ai quattro Vangeli. Secondo Gregorio Magno (540-604), in effetti, ciascun testo contribuiva a rivelare un particolare aspetto della redenzione dell'umanità operata dal Cristo: uomo alla nascita, vitello sacrificale alla morte, leone nella Risurrezione e aquila nell’Ascensione. Per Sedulio e per il suo Carmen Paschale, i quattro, come simboli delle acque del Battesimo, erano assimilabili ai fiumi del Paradiso derivanti da una singola fonte, il Cristo. I loro scritti erano invece paragonabili alle ‘colonne portanti’ del cosiddetto tetragonus mundus.
Il programma apocalittico del presbiterio di Porta Latina, come quello della navata, doveva dunque sottolineare la contemplazione e la profondità del mistero del Verbo Incarnato, la Redenzione e la testimonianza pasquale dell’Apostolo nella Resurrezione del Cristo; tematiche che, non a caso, si impongono nella teologia e nell’eucologia della fine dell’XI e la metà del XII secolo, e nella liturgia connessa alla festa di san Giovanni, il cui culto s’intensifica proprio durante la Riforma gregoriana. Il programma inoltre mette in scena la preghiera eucaristica all’inizio del canone della messa, che per tutto il Medioevo risulta sollecitata dalle parole del Vere dignum, con il quale tradizionalmente cominciava il prefazio. L’orazione, che invoca le gerarchie celesti e il Cristo, seguita dal canto serafico del sanctus, derivato da Isaia 6,3 e da Apocalisse 4,8, appare particolarmente connessa con le immagini teofaniche del Salvatore in gloria, o dell’Agnello, circondato dai Viventi, da angeli e santi (assemblea degli apostoli e dei profeti). Il programma, pertanto, trasforma in immagine quanto evocato dalla preghiera eucaristica, manifesta la presenza del Cristo e della sua gerarchia celeste nella chiesa fisica, nello spazio reale dell’edificio, diventando così un’allegoria della gloria della Chiesa celeste e terrena. Come gli Evangelisti, anche i Viventi, gli Angeli e i Vegliardi, simbolo della comunità celeste, confermano esplicitamente la loro reale partecipazione al Vere Dignum. E tale orazione, in connessione all’Agnello, assume particolare rilevanza nel tempo quaresimale e pasquale.

Il ciclo vetero e neotestamentario della navata

Fra XII e XIII secolo, numerose chiese a Roma e nel Lazio furono dipinte con cicli testamentari, avendo come modello di riferimento la decorazione paleocristiana di San Pietro in Vaticano e di San Paolo f.l.m.. In molti di questi edifici scene dell’Antico e del Nuovo Testamento si contrappongono lungo le due pareti della navata, mentre il Giudizio Universale occupa la controfacciata. La decorazione pittorica di San Giovanni a Porta Latina s’inserisce in questo gruppo pur presentando alcune scelte del tutto originali. Le scene testamentarie si succedono lungo le pareti della navata con andamento anulare. Questa ‘disposizione circolare’ consente una lettura continua dei cicli scena dopo scena, senza il rischio di ‘percorsi ciechi’ che obblighino a ritornare, passando da un registro all’altro, al punto di partenza. Essa, inoltre, rispetto alla disposizione dei cicli ordinata per pareti, crea nella navata una narrazione continua che unifica lo spazio sacro.
Baschet ha notato come la Storia della Salvezza, illustrata attraverso il ciclo narrativo, si attualizzi nel pensiero medievale in due modi: «come rappresentazione lineare di una storia orientata, dalla Creazione alla fine dei tempi; come reiterazione ciclica del tempo liturgico che commemora tale storia». Secondo lo studioso è possibile che lo sviluppo della ‘disposizione circolare’ dei cicli sia da leggere in relazione alla temporalità liturgica: entrando nell’edificio di culto, «fedeli e clero si trovano inglobati, presi nella circolarità di una storia sacra la cui liturgia celebra, nel corso dell’anno, i momenti principali».
A Porta Latina, la sequenza delle scene della Genesi ha inizio sulla parete destra con la Creazione del Mondo, e prosegue – dall’abside verso la controfacciata – con le Storie dei Progenitori, di Caino e Abele, di Noè, di Abramo e di Giacobbe, per terminare con il Sogno di Giuseppe. Il ciclo continua sulla controfacciata e, successivamente, sulla parete sinistra fino all’abside. Il programma neotestamentario segue lo stesso percorso, ma si sviluppa lungo i due registri inferiori delle pareti della navata senza interessare la controfacciata. Questa struttura permette di dispiegare un ciclo cristologico quasi completo: il Battesimo di Cristo occupa l’undicesimo riquadro, preceduto da un cospicuo numero di scene dell’Infanzia; ridotta è, invece, la serie relativa alla Vita Pubblica di Gesù, la quale termina con la Resurrezione di Lazzaro; sei scene sono dedicate, poi, alla Passione del Signore, mentre gli ultimi otto episodi sono riservati alle Apparizioni post-mortem. Presentando la lettura ‘canonica’ del Vecchio Testamento quale antefatto storico del Nuovo, questa disposizione delle scene ha indotto alcuni studiosi a proporre alcune associazioni ‘alternative’ a quelle tradizionali. Questo ha consentito, in alcuni casi, di mettere in relazione determinati episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento, in modo da rendere ben visibile la concordanza tipologica tra le due parti della Bibbia.
Kessler ha notato come l’unità delle Scritture si palesi già all’inizio della decorazione, nella figura dello stesso s. Giovanni Evangelista. Nella chiesa che ne glorifica il martirio romano, egli è ritratto alla sinistra dell’altare (arco absidale, peduccio destro) con, tra le mani, il libro aperto sulle parole iniziali del suo Vangelo: «In principio erat Verbum (Gv 1, 1)». Esse si collegano al titulus della Creazione del Mondo, «In principio creavit D[eus] Terram (Gen 1, 1)», e introducono così al ciclo biblico che si dispiega lungo la navata. Al di sotto della Creazione è posta l’Annunciazione a Maria, la quale alluderebbe alla ‘seconda genesi’, il secondo inizio avvenuto mediante l’Incarnazione del Signore. L’armonia tra i due Testamenti è resa esplicita già all’inizio del programma decorativo, al cui interno la figura dell’Evangelista assume un ruolo di primo piano.
Ulteriori accostamenti ribadiscono l’intima correlazione tra i due Testamenti. Il primo esempio, di grande importanza, è offerto dal legame che intercorre tra la Cacciata dei Progenitori (parete destra, sesto riquadro del primo registro) e la sottostante Crocifissione (penultimi due riquadri del secondo e terzo registro) tramite il titulus che corre al di sotto dell’episodio veterotestamentario e al di sopra di quello neotestamentario: «Inmortalem decus per lignum perdidit hoc lignum».

San Giovanni a Porta Latina, parete destra.
Primo registro: Cacciata dal Paradiso terrestre; secondo registro: Crocifissione


Secondo Kessler, questi versi letteralmente si riferiscono alla causa del peccato e alludono alla punizione attuata da Dio nei confronti di Adamo ed Eva dopo che essi ebbero mangiato dall’albero della Conoscenza del Bene e del Male: l’uomo ha perso lo splendore del Cielo (la parola ‘decus’ sottintenderebbe ‘Caeli’) a causa del ‘legno’. Tuttavia, una lunga tradizione che giunge fino a Ireneo (130-202) riporta che il legno dell’albero del Paradiso fu utilizzato per realizzare la Croce sulla quale Cristo sarebbe morto; la parola ‘lignum’ allude così sia all’albero della Conoscenza violato nel Peccato Originale che al legno salvifico della Croce, come Manion ha specificato: «“Inmortalem decus caeli” is a liturgical phrase for eternal life and “lignum” carries all the overtones of the parallels drawn in Christian imagery between the tree of Paradise and the saving wood of the cross». La studiosa ha, inoltre, ricordato come questo tema fosse presente nei poemi e negli scritti della prima Cristianità, in particolare affrontato nell’inno “Pange Lingua Gloriosi Lauream Certaminis”, cantato durante l’Adorazione della Croce nella Liturgia del Venerdì Santo. Nella Cacciata dei Progenitori non compare l’albero della Conoscenza: il titulus riassumerebbe così l’intera narrazione della Caduta di Adamo ed Eva e la presenterebbe nella prospettiva salvifica della Crocifissione. A detta di Kessler, un ulteriore nesso lega queste due scene: le mura gemmate del Paradiso identificherebbero il «decus [Caelis]» come la Gerusalemme Celeste alla quale i beati torneranno alla fine dei tempi. Nell’Apocalisse di Giovanni, essa è descritta come una città lucente: «Le mura sono costruite con diaspro e la città è di oro puro, simile a terso cristallo. Le fondamenta delle mura della città sono adorne di ogni specie di pietre preziose [...] E le dodici porte sono dodici perle; ciascuna porta è formata da una sola perla. E la piazza della città è di oro puro, come cristallo trasparente (Ap. 21, 18-21)»
Tornando alla lettura delle scene, la giustapposizione Sacrificio di Caino e Abele /Giudizio Finale sulla controfacciata costituisce un altro esempio di collegamento figurale: i due fratelli, nell’atto di porgere a Dio le loro offerte, prefigurano il Giudizio divino e la distinzione tra fedeli e malvagi. Questa interpretazione troverebbe un’ulteriore conferma nella stessa resa della scena, che presenta un elemento iconografico inusuale nel panorama laziale di XI-XIII secolo: le fiamme che divampano dall’ara centrale. Esse si innalzano vigorose dal lato di Abele, mentre si abbassano da quello di Caino, e rendono così esplicito il diverso atteggiamento di Dio Padre nei confronti dei due sacrificanti. Anche la vicinanza Giudizio Finale e Ordine a Noè di costruire l’arca/Entrata degli animali nell’arca non può ritenersi casuale. Gli episodi veterotestamentari occupano, a partire dalla controfacciata, i due riquadri iniziali del primo registro della parete sinistra: si allude così alla Redenzione dei Giusti. A questo riguardo, la seconda Lettera di Pietro (2 Pe. 2, 4-5) confronta la salvezza dei beati con quella di Noè: «Dio infatti non risparmiò gli angeli che avevano peccato, ma li precipitò negli abissi tenebrosi dell’inferno, serbandoli per il giudizio; non risparmiò il mondo antico, ma tuttavia con altri sette salvò Noè, banditore di giustizia, mentre faceva fiondare il diluvio su un mondo di empi [...]».
Così anche il Sogno di Giuseppe (parete sinistra, ultimo riquadro del primo registro) e l’Adorazione dei Ventiquattro Vegliardi (presbiterio) sono tra loro collegati: l’evento veterotestamentario è indicato quale prefigurazione dell’adorazione dei Vegliardi. Il secondo Sogno di Giuseppe, con il sole, la luna, le stelle e i covoni di grano inginocchiati ai suoi piedi, è interpretato quale profezia dei popoli che avrebbero adorato Cristo. Manion, inoltre, ha analizzato il ruolo svolto dal Giudizio Universale, «fittingly incorporated within the whole biblical program of the church», nella narrazione neotestamentaria: esso svolgerebbe anche la funzione di collegamento tra le due scene della Crocifissione e della Deposizione al sepolcro della parete destra con i successivi episodi relativi alla Resurrezione, sulla parete sinistra.Il ruolo detenuto dal Giudizio Finale nello svolgimento del programma biblico sarebbe testimoniato anche dalla sua particolare disposizione: solitamente isolato sulla controfacciata, a Porta Latina esso condivide lo spazio con le scene veterotestamentarie (Condanna al Lavoro dei Progenitori e vicenda di Caino e Abele), con le quali instaura un rapporto figurale. Inoltre, la sua larghezza corrisponde perfettamente a quella complessiva dei due registri inferiori neotestamentari, suscitando così l’impressione di una continuità nello svolgimento ad anello.
Il programma della basilica non è costruito su un equo bilanciamento di Vecchio e Nuovo Testamento: si rammenta che il primo comprende diciotto scene, il secondo trenta episodi. Come già nella particolarità della disposizione ad anello, anche questo elemento può configurarsi quale caratteristica del ciclo di Porta Latina rispetto a quanto analizzato nel contesto romano e laziale. Nella norma a un determinato numero di episodi veterotestamentari dovrebbero corrispondere altrettanti neotestamentari: come avveniva a San Pietro in Vaticano e a San Paolo f.l.m., e probabilmente anche nei cicli successivi di San Benedetto in Piscinula, Santa Maria Immacolata a Ceri, Santa Maria Montis Dominici a Marcellina, San Nicola a Castro dei Volsci, Santa Maria a Vescovio. Manion ha proposto di leggere «the whole narrative of the Old Testament» come «a sequence of events leading to the fulfillment of the promise of salvation in the New». In particolare, la studiosa ha scomposto il ciclo neotestamentario in quattro unità: la prima relativa all’Infanzia di Cristo, la seconda alla Vita Pubblica, la terza dedicata alla Passione e alla Crocifissione, e l’ultima alle Apparizioni post-mortem. La prima e l’ultima unità svolgono un ruolo di primo piano nell’economia interna del ciclo. L’infanzia occupa circa un terzo della superficie disponibile: svela il potere e la divinità di Cristo e le speciali circostanze che ruotano intorno alla Sua nascita; mentre l’ultimo registro della parete sinistra è interamente occupato dagli episodi successivi alla Sua morte, rivelatori del grande dogma della Resurrezione. Forse, proprio nella particolare enfasi conferita alla sequenza neotestamentaria, così come nella selezione delle scene, potrebbe essere individuata la chiave di lettura del ciclo di Porta Latina. Esso svilupperebbe i due misteri fondamentali della Cristianità: quello dell’Incarnazione e quello della Resurrezione, nella prospettiva della Redenzione. Enigmatico è l’esempio addotto della Cacciata/Crocifissione: la caduta dell’uomo che trova il riscatto e la propria redenzione nel Sacrificio (Morte e Resurrezione) del Signore; è attraverso esso che l’uomo potrà tornare alla Gerusalemme celeste. Questa interpretazione potrebbe essere ulteriormente rafforzata, come accennato, dalle scene frammentarie conservate nel pastoforio destro.
Come i soggetti apocalittici dell’avancoro, anche le scene della navata, circa l’iconografia, riflettono l’arte monumentale della tarda antichità e del primo Cristianesimo a Roma. È un’ipotesi, questa, che risulta avallata in particolare da alcuni elementi iconografici presenti nelle scene della Creazione e della Caduta dell’Uomo: la figura del Signore seduta sul globo e la Sua mano alzata nel gesto del potere; la posizione reclinata di Adamo che rammenta quelle delle divinità fluviali; il disporsi colpevole dei Progenitori ai lati dell’albero nel Peccato originale che rimanda ad analoghe composizioni ritrovate nelle catacombe e sui sarcofagi. Fondamenti risultano, inoltre, i raffronti individuati dagli studiosi con la serie delle Bibbie Atlantiche. In questa sede preme porre in evidenza i nessi che legano la recensione illustrata delle Bibbie in questione con gli arrangiamenti iconografici propri di San Giovanni a Porta Latina. Analoga è la tipologia del Creatore giovane, imberbe e racchiuso entro il segmento del cielo nella Creazione del Mondo della chiesa dell’Evangelista con gli esemplari miniati, in particolare con la Bibbia di Santa Cecilia, mentre la Sua posizione seduta sul globo nella Creazione di Adamo e in quella di Eva e il particolare dell’alito divino per infondere la vita in Adamo si collega alle analoghe scene della Bibbia di Todi, del Pantheon e della Seconda Bibbia dell’Angelica.

La sequenza, al di là delle singole varianti, del Peccato dei Progenitori, del Rimprovero dei Protoparenti, della Cacciata dal Paradiso Terrestre  e del Lavoro di Adamo ed Eva è del tutto simile a quanto si riscontra nella Bibbia di San Valentino in Piano, nella Bibbia di Todi, nella Bibbia del Pantheon e nella Seconda Bibbia dell’Angelica. Inoltre, si ritrova nel gruppo atlantico, in particolare nella Bibbia del Pantheon e nella Seconda Bibbia dell’Angelica, quella specifica fusione tra i corpi dei Progenitori nella Cacciata che contraddistingue anche Porta Latina. In particolare, è eloquente la rispondenza iconografica con il quarto registro della pagina miniata della Bibbia del Pantheon (Cacciata dall’Eden, Cherubino di guardia alla Porta del Paradiso, Lavoro dei Progenitori), dove l’Angelo  (e non Dio) che caccia i Parenti e la posizione mesta di Eva e quella di Adamo intento a zappare la terra sono quasi palmari. Analogo è il confronto con il Cherubino a guardia della Porta dell’Eden miniato nella Seconda Bibbia dell’Angelica: in entrambi i casi, egli, avvolto dalle ali, sguaina la spada a difesa della porta della città, chiusa alle spalle dei Progenitori. Si debbono inoltre rilevare alcune particolarità iconografiche che, analogamente alle pitture del presbiterio, distinguono il caso di Porta Latina dai suoi prototipi paleocristiani: il mare ricco di pesci nella Creazione del Mondo – presente anche a Santa Maria Immacolata a Ceri e a San Pietro in Valle a Ferentillo e secondo Kessler simbolo della Chiesa in Terra, fonte delle acque vitali e, dunque più in generale, della vita –, e la testa di Abyssus tra le acque del mare. Questo particolare attributo appare solo nella lastra d’avorio oggi a Berlino (settimo decennio XI secolo ca.) e nell’Oratorio di Thomas Becket ad Anagni (terminus post quem 1173). Nel primo caso, la testa umana compare addirittura due volte: nella scena della Creazione del Mondo sul verso e nella Crocifissione sul recto. Anche la Benedizione di Isacco di Porta Latina presenta soluzioni e particolari iconografici che la contraddistinguono dagli esempi paleocristiani di San Pietro in Vaticano e di San Paolo f.l.m.. Se la presenza del Patriarca sulla cline e di Giacobbe di fronte a lui la riportano agli esemplari di V secolo, il piatto con le pietanze offerto dal secondogenito è una novità, così come l’arrivo di Esaù con la selvaggina dopo la caccia. Queste caratteristiche, che si riscontrano anche a Santa Maria Immacolata a Ceri e a San Pietro in Valle a Ferentillo, sarebbero legate secondo Kessler a delle nuove letture del testo biblico connesse alle circostanze politiche e religiose che si sono verificate a partire dall’XI secolo.
Se a giudizio di Manion «the iconography of S. Giovanni so clearly reflects the re-modelling of themes which took place in the 8th century under the impetus of Byzantine influences in the city», per Viscontini nel ciclo neotestamentario è possibile riscontrare numerose inserzioni iconografiche di origine bizantina. Esse riguardano soprattutto l’utilizzo di materiale tratto dai Vangeli apocrifi, in particolare nelle scene dell’Infanzia di Cristo: l’attributo del filo di porpora nell’Annunciazione e l’inserzione della terza figura femminile nella Visitazione, quest’ultima diffusa soprattutto in ambiente cappadoce. Anche la presenza del primo figlio di Giuseppe nell’Andata a Betlemme, la rappresentazione congiunta della Natività/Lavanda di Gesù Bambino, e lo schema della Resurrezione di Lazzaro sono canonici in ambito bizantino; come anche l’Apparizione del Signore alle due Marie – Kairete (preferito al Noli me tangere) è un tema insolito nell’iconografia occidentale. È tuttavia arduo sostenere l’ipotesi di una dipendenza iconografica delle scene cristologiche di Porta Latina dal prototipo vaticano. Di quest’ultimo, le citate testimonianze documentarie riportano pochissimi episodi. E, sfortunatamente, tra i suoi cd. ‘derivati romanici’, possibili termini di un confronto, non si è conservato per larga parte intatto nessun ciclo neotestamentario, come dimostrano gli analizzati casi di Santa Maria Immacolata a Ceri, Santa Maria delle Grazie Montis Dominici a Marcellina, San Nicola a Castro dei Volsci.
Come per i dipinti del presbiterio, è poi possibile riconoscere nelle scene dell’Infanzia Salvatoris la presenza di elementi e schemi di origine bizantina che a Roma già compaiono nel V-VI secolo. Soprattutto per quanto riguarda l’uso di materiale desunto dai Vangeli Apocrifi, in special modo dal Protovangelo di Giacomo. Nell’Annunciazione, infatti, il filo di porpora, desunto dagli Apocrifi, era già apparso a Roma nella scena mosaicata sull’arco trionfale di Santa Maria Maggiore, risalente al V secolo. Un altro elemento contraddistingue, inoltre, Porta Latina da tutte le altre scene prese in esame nel panorama laziale: tre raggi si dipartono dal menisco divino e sembrano toccare l’orecchio di Maria. A partire dal XII secolo l’Annunciazione viene riconosciuta con maggiore enfasi come l’evento in cui si attua il piano della salvazione attraverso Maria (nuova Eva, vincitrice sul male e sul peccato dei Progenitori), madre di Cristo e di tutta l’umanità redenta. Il momento dell’Incarnazione può così anche essere colto nella rappresentazione del Verbo che, ascoltato da Maria, si fa carne: iconograficamente, ciò è reso attraverso un raggio luminoso o una linea purpurea che entra nell’orecchio della Vergine. Probabilmente, a Porta Latina, compariva anche, alla sinistra di Maria, un’ulteriore figura, forse identificabile con un’ancella. Oggi è del tutto scomparsa, ma è testimoniata nella fotografia acquerellata di Wilpert; inoltre, a un’attenta osservazione di una fotografia, scattata dopo i recenti restauri, si scorgono ancora le sagome dei piedi. La presenza di un’ancella è un elemento che sicuramente Porta Latina non recupera dal periodo paleocristiano (dunque nemmeno da San Pietro in Vaticano), poiché il suo inserimento nell’iconografia dell’Annunciazione è attestato solo a partire dall’VIII secolo, forse influenzato dalla presenza analoga dell’ancella nella Visitazione. Essa è presente a Roma a Sant’Urbano alla Caffarella e, successivamente, a Santa Maria delle Grazie Montis Dominici a Marcellina. 
Anche la Natività si presenta aderente ai canoni bizantini, e segue uno schema che, a partire soprattutto dal V-VI secolo, sostituisce quello maggiormente diffuso in Occidente. Il presepe non è più posto sotto una capanna o una tettoia, ma generalmente all’aperto o sotto una grotta; la Vergine siede su un giaciglio e s. Giuseppe è seduto pensoso. Numerosi elementi di questa composizione rivelano una contaminazione dagli Apocrifi: così la presenza costante del bue e dell’asino e l’attitudine solitaria e meditativa di Giuseppe, forse dipendente da quanto riportato nel Protovangelo di Giacomo. In ambito bizantino, inoltre, la scena della Natività è accompagnata dalla Lavanda del Bambino: così appare a Sant’Urbano alla Caffarella e a Porta Latina. Tra i monumenti analizzati solo a San Pietro in Vineis ad Anagni, essa gode di spazio autonomo. La scena di Porta Latina presenta, a mio avviso, le maggiori affinità con quella della Cassetta eburnea di Farfa (nonostante l’assenza del Bagno di Gesù): pur nella diversità di alcuni elementi, analoga è tra i due esemplari la disposizione e la posizione della Vergine e di s. Giuseppe. Questo confronto, unitamente a quello che può essere istituito con Sant’Urbano alla Caffarella, l’avorio di Salerno, la Grotta degli Angeli a Magliano Romano, l’Oratorio di Thomas Becket e San Pietro in Vineis, permette di ipotizzare che, in base ad uno schema iconografico che si reitera immutato, anche la scena di Porta Latina disponesse della mangiatoia, del Bambino, del bue e dell’asino nella sezione superiore del riquadro, già perduta al tempo della scoperta dei dipinti.
Nel canonico schema bizantino, l’Annuncio ai pastori è unito alla Natività: così avviene nell’Oratorio della SS. Trinità a Vallepietra, nella Grotta degli Angeli a Magliano Romano e in San Pietro in Vineis ad Anagni. A Porta Latina, invece, ad esso è riservato un intero scomparto, come accade anche a Sant’Urbano alla Caffarella, nella cassetta eburnea di Farfa, nella formella di Salerno, a San Pietro in Valle a Ferentillo e a Santa Maria delle Grazie Montis Dominici a Marcellina. Rispetto a tutti gli esempi esaminati, solo a Porta Latina l’angelo non è colto ancora in volo e racchiuso nel segmento celeste ma, ormai planato a terra, sta annunciando ai pastori l’avvenimento. L’atteggiamento della figura al margine destro della scena ha invece suscitato pareri contrastanti tra gli studiosi. Unanimemente interpretato quale pastore, esso è stato visto o nell’atto di cogliere fiori o di suonare uno strumento musicale. A mio parere, il pastore doveva essere sdraiato, probabilmente dormiente, come indicherebbero – sulla base delle tavole di Wilpert – la posizione allungata del corpo e quella delle braccia, la destra piegata probabilmente dietro la testa. Così appare nell’unico frammento superstite dell’episodio nella successiva abbazia di Marcellina. La posizione di Manion, che vi vede un pastore intento a suonare un liuto non è, a mio giudizio, sostenibile; nonostante l’episodio di Porta Latina presenti indubbie affinità iconografiche con la Cassetta di Farfa, in quest’ultimo esemplare il pastore-musico, rappresentato alla sinistra del pannello e in posizione secondaria, presenta una postura maggiormente raccolta e meno allungata, come diversa è anche la posizione delle braccia destinate a sostenere lo strumento musicale. Così appare anche il pastore-musico a Sant’Urbano alla Caffarella. La Crocifissione di Porta Latina, invece, presenta un’ampiezza doppia rispetto a tutte le altre scene. L’enfasi che gli viene accordata è riscontrabile solo a San Pietro in Vaticano  e, in seguito, a Sant’Urbano alla Caffarella. Lo schema iconografico risulta particolarmente affine a quello della Cassetta eburnea di Farfa, anche se in quest’ultimo riquadro sono presenti le due Marie. Rispetto a tutti i casi analizzati, solo a San Giovanni a Porta Latina è stata rilevata la presenza delle tavolette lignee.
Sulla base di questi confronti è possibile stabilire come l’intero programma iconografico, della navata e del presbiterio, condivida alcune caratteristiche iconografiche con opere, monumentali e miniate, datate tra la metà dell’XI secolo e la metà del XII. Si tratta di un repertorio di immagini contemporaneo, visibile in una serie di opere legate, sia a Roma che al di fuori, all’ambiente della Riforma, che, come è noto, recuperò schemi iconografici di epoca paleocristiana. Tuttavia, ed è bene sottolinearlo, alcuni elementi del ciclo di Porta Latina si configurano quale unicum, non trovando un riscontro diretto nel panorama romano e laziale di XI-XIII secolo.


*Testo estratto dalle seguenti tesi di laurea magistrale, discusse all'Università degli Studi Roma Tre in data 5/04/2012: 
- Serena Di Giovanni, “San Giovanni a Porta Latina: i dipinti murali del presbiterio” (A. A. 2010/2011); 
- Silvia Di Summa, “San Giovanni a Porta Latina: i cicli neo e veterotestamentari della navata” (A. A. 2010/2011).  

La basilica di San Giovanni a Porta Latina a Roma



Serena Di Giovanni, Silvia Di Summa
(estratto delle tesi di laurea magistrale: “San Giovanni a Porta Latina: i dipinti murali del presbiterio”; “San Giovanni a Porta Latina: i cicli neo e veterotestamentari della navata”. A. A. 2010/2011)




1.1            Cenni storici

La chiesa di San Giovanni a Porta Latina sorge sul Celio, presso la via Latina, non lontano dalla porta omonima della cinta aureliana. Essa è contigua alla cappella di San Giovanni in Oleo, prima memoria eretta a Giovanni Evangelista su un presunto tempio dedicato a Diana, considerata per lungo tempo il luogo dello scampato martirio dell’apostolo.
Le notizie sulla vita e la morte di Giovanni, apostolo ed evangelista sono varie e, a volte, contraddittorie. Papia di Ierapoli (70-130 ca.) narra del suo martirio avvenuto, assieme al fratello Giacomo, per mano dei giudei. Policrate di Efeso (130-196 ca.), invece, in un frammento di un’epistola a papa Vittore I (189-199), riferisce della sua sepoltura a Efeso. È Tertulliano (II-III sec. d.C.) a fornire, tuttavia, una prima testimonianza dello scampato supplizio del santo, avvenuto intorno al 92 d.C.: «[…] ubi apostolus Iohannes posteaquam in oleum igneum demersus nihil passus est, in insulam relegatur». Secondo Girolamo (347-420 ca.) l’evento si sarebbe compiuto sotto Nerone (54-68), come si evince dall’Adversus Iovinianum (I 26) e dal commento a Matteo (ad 20, 23), composti fra il 393 e il 398. Ulteriori precisazioni a riguardo compaiono nei martirologi di VII-IX secolo, quali l’Adone di Vienna e i martirologi di Floro e di Vetus.
La chiesa fu forse edificata sotto papa Gelasio I (492-496), come proverebbero i bolli doliari di Teoderico (495-526) rinvenuti durante gli scavi novecenteschi. Il Liber Pontificalis riporta anche un suo successivo rifacimento, avviato da Adriano I (772-795): «…ecclesiam beati Johannis Baptiste sitam iuxta portam Latinam ruinis praeventam in omnibus noviter renovavit». Al tempo di Adriano I rimonta, con ogni probabilità, l’iscrizione visibile sul pozzo di fronte all’edificio «ego stephanus in nomine pat. et filii esp… i», mentre alla prima metà dell’XI secolo risale la notizia di una comunità di sacerdoti presente all’interno del complesso, promotrice di una vasta opera di riforma e caratterizzata da una vita di intensa spiritualità, povertà e obbedienza. Fra XI e XII secolo, la chiesa divenne luogo d’incontro di personaggi di primo piano nel progetto di riforma della Chiesa, come Benedetto IX (1032-1044), Gregorio VI (1033-1049), Bartolomeo abate di Grottaferrata, Lorenzo di Amalfi, Odilone di Cluny e Ildebrando di Soana. Sotto Celestino III (1191-1198) ebbe inoltre una nuova dedicazione, testimoniata dall’iscrizione un tempo murata in controfacciata e ora collocata sul fronte di un moderno leggio.
Allo scadere dell’XI secolo San Giovanni a Porta Latina è attestata come un’importante stazione liturgica delle celebrazioni del sabato precedente la Domenica delle Palme, che avevano luogo in San Giovanni in Laterano. Sebbene Gaetano Moroni, fonte di XIX secolo, supporti l’ipotesi secondo cui Gregorio I (590-604) avesse qui stabilito la stazione liturgica del sabato della Passione, per la stazione di Porta Latina appare arduo individuare un momento cronologico anteriore all’XI secolo. È però necessario ricordare che anche durante la cattività avignonese (1309) e il conseguente progressivo abbandono della città, la chiesa e il contiguo oratorio rimasero per molto tempo meta di pellegrinaggi. È inoltre plausibile ipotizzare che, fra XI e XIII secolo, un convento femminile benedettino fu annesso alla chiesa. Citato nel catalogo di Cencio Camerario del 1192, il monastero sarebbe esistito fino al pontificato di papa Bonifacio VIII (1299-1303). Quando quest’ultimo concesse la basilica lateranense al clero secolare, anche San Giovanni a Porta Latina dovette seguire le vicende della basilica madre. I beni, entrati a far parte del Capitolo Lateranense, si dileguarono e la comunità religiosa venne a trovarsi senza alcun reddito. Ne fu conseguenza il ritiro dei Canonici e l’abbandono del tempio. Solo nei primi decenni del XIV secolo vi si insediarono i Padri Clareni: ricordati dal Catalogo di Torino (1320 ca.), essi rimasero nella basilica fino al 1473, quando si trasferirono a San Girolamo della Carità. Il 15 gennaio 1496 il Capitolo Lateranense concesse la custodia della chiesa agli Eremitani di Sant’Agostino, che vi rimasero però solo pochi anni.
Diverse sono state le Congregazioni religiose che si sono alternate nella gestione della chiesa, spesso abbandonata a causa sia della sua posizione in aperta campagna, sia delle ristrettezze economiche a cui era sottoposta. Per questo motivo, quando anche l’ultima comunità religiosa venne meno, il Capitolo decise di incaricare un canonico, scelto tra i suoi membri, allo scopo di provvedere a tutte le necessità della chiesa, senza ricevere altri emolumenti. Questi canonici, detti ‘Difensori’ o abati commendatari, si susseguirono nella cura della basilica e dei suoi annessi per oltre un secolo e mezzo, utilizzando le loro sostanze per il suo sostentamento. La sua custodia diretta fu così affidata ai padri eremiti, che avevano la facoltà di raccogliere le elemosine dei fedeli e di «questuare il quanto occorreva al proprio mantenimento», con l’obbligo di pernottare nei locali annessi alla basilica, e di farvi celebrare le messe festive a proprie spese.
Nel 1703, i Padri Mercedari Scalzi ottennero dal Capitolo lateranense l’uso della chiesa e del convento; ma non essendo quest’ultimo abitabile per le sue cattive condizioni, si provvide a lavori di restauro e ampliamento. Nel 1729, ottenuta la chiesa in enfiteusi perpetua, ai Padri Mercedari succedevano i Padri Minimi di San Francesco da Paola. Questi avviarono l’edificazione di una fabbrica su via Latina, ma le forti spese e la zona malarica li costrinsero a spostare altrove il noviziato e ad affittare i locali per far fronte ai debiti contratti. Le condizioni dell’edificio andarono gradatamente peggiorando fino a quando i Padri Minimi, nel 1798, furono cacciati e dispersi dai francesi, e i locali, ormai cadenti, dati ai custodi della Porta. La chiesa minacciò allora di essere completamente spogliata di tutti gli arredi e le suppellettili e fu salvata solo grazie all’abilità e all’astuzia del vignaiolo, che versò di suo undici piastre ai soldati francesi. In quel periodo Porta Latina fu chiusa, con gravi conseguenze per la chiesa e per la zona, malsicura e spesso anche rifugio di scandali e nequizie. Il convento divenne così ospizio di pellegrini, alloggio di truppe di passaggio, più tardi deposito di lana e perfino essiccatoio di pelli per un beccaio.
Nel 1830, date le cattive condizioni della basilica e del convento, i Padri rinunciarono definitivamente a ogni diritto sul complesso e, nel 1859, su sentenza del tribunale, anche il convento passò in possesso del Capitolo lateranense.
Nel 1876 la cura della chiesa fu affidata ai Terziari francescani di Albì, che dovettero però allontanarsi a causa della malaria. Nel 1905 le suore della Ss. Annunziata, dette Turchine, entrarono in possesso del convento e vi fondarono un monastero di clausura, venendo tuttavia allontanate alla fine degli anni Trenta, quando l’estendersi ormai crescente della città rese necessario un servizio religioso regolare.
Dal 1937 subentrarono i PP. Rosminiani che, acquistato il convento, vi stabilirono il Collegio Missionario ‘Antonio Rosmini’, ancora oggi qui ubicato. 





1.2            L’edificio

L’edificio si apre di fronte a una piazza, il cui asse centrale corre da nord-ovest a sud-est, parallelo alla via Latina. Anticamente, l’area circostante era scarsamente abitata e poche tracce di tombe romane, anteriori alla costruzione delle Mura Aureliane, sono state rinvenute ai lati dell’omonima strada. La facciata è preceduta da un portico, sostenuto da cinque archi poggianti su due pilastri rastremati alle estremità laterali e su quattro colonne, che presentano basi, fusti e capitelli prelevati da antichi edifici. L’ampia fronte del portico si conclude con un alto attico e un fregio a mensola su cui si imposta direttamente la copertura. Un ampio portale cosmatesco, dal fregio intarsiato a porfido rosso e verde, consente l’accesso alla navata centrale. Originariamente due ulteriori aperture di minori dimensioni garantivano l’entrata all’interno della chiesa. Alla sua sinistra è situato il pozzo, fiancheggiato da due colonne con capitelli a foglie stilizzate e di piccole dimensioni, databili alla fine del V secolo. Appartiene, probabilmente, all’epoca di papa Adriano I (772-795) la margella dello stesso, dalla forma troncoconica e dal corpo decorato da un albero della vita, dal cui fusto centrale si dipartono due serie sovrapposte di racemi e nelle cui volute si dispongono fiori a petali ruotanti. Sul margine corre la scritta: in nomine pa(tri) et filii spi (ritus sant) i/omnes sitie (ntes venites ad aquas)/Ego Stefanus; il verso riporta le parole del profeta Isaia (55, 1): o voi tutti assetati, venite all’acqua. Sul lato sinistro del portico, e in stretta correlazione con esso, si innalza l’alta torre campanaria, variamente datata fra gli inizi dell’XI –XII secolo. Di forma quadrata essa mostra cinque piani di finestre, monofore nel piano inferiore, bifore con pilastro mediano al livello successivo e trifore colonnate negli ultimi tre piani.
L’interno dell’edificio è diviso in tre navate da due file di cinque colonne, in parte di reimpiego, sulle quali poggiano archi semicircolari. La navata centrale, alta 10,07 m. e larga 7,5 m., conclusa da un corto e oblungo avancoro e da un’abside, è ricoperta, come le navate, da un tetto a travi scoperte. Piccole finestre arcuate si aprono sopra le arcate e nella parete della facciata, dove sono chiuse da transenne marmoree. Anche le navate minori prendono luce da piccole finestre a semicerchio, ma le prime due campate di quella destra, confinanti con gli edifici del monastero, sono prive di aperture. La parte terminale della chiesa è costituita da un coro tripartito – frequente fra V e VI secolo a Ravenna, a Bisanzio e nelle regioni limitrofe – con avancorpi, in comunicazione con le navate mediante aperture ad arco. L’abside principale, dotata su ogni lato di un’apertura a tutto sesto e chiusa da lastre di onice giallo miele, si presenta semicircolare all’interno e poligonale all’esterno, formata dai tre lati di un esagono. Le navate minori terminano con due vani, i pastoforii, nei quali si aprono due piccole absidi; esse sono semicircolari, prive di finestre e addossate perpendicolarmente al muro di chiusura delle navate minori. Secondo Krautheimer i locali laterali, uno dei quali forse originariamente adibito a contenere il fonte battesimale, andrebbero ricondotti alle chiese cristiane d’Oriente.
La cronologia della basilica è ancora oggi molto dibattuta, avendo l’individuazione e la conseguente datazione delle sue diverse strutture murarie determinato pareri contrastanti tra gli studiosi. Krautheimer riconobbe nell’edificio due diversi tipi di muratura, che datò al V-VI secolo e al XII secolo. Matthiae, invece, fra il livello pavimentale paleocristiano e quello attuale di XII secolo, individuò uno stadio intermedio, che ascrisse alla fase edilizia di Adriano I (772-795). Di recente Claussen ha datato la parete laterale nord del portico, le navate con le relative arcate e la parete occidentale dell’edificio – di apparente muratura paleocristiana – alla fine dell’XI secolo. È dunque plausibile collegare il rifacimento architettonico di epoca romanica a un momento precedente la nuova dedicazione di Celestino III (1191-1198), verosimilmente compreso fra la fine dell’XI secolo (Claussen) e la prima metà del XII secolo. Per Parlato e Romano appare ragionevole congiungere l’avvio della nuova campagna edilizia al 1144, momento di passaggio di San Giovanni a Porta Latina al Capitolo lateranense. Schumacher e Sartori hanno tuttavia rilevato come la data del 1191 debba essere considerata unicamente quale testimonianza della riconsacrazione dell’altare, a seguito della sostituzione delle reliquie dell’Evangelista, passate al Sancta Sanctorum, con quelle dei santi Gordiano ed Epimaco, giunte a San Giovanni dal vicino ed eponimo cimitero di via Latina. La piccola targa marmorea disposta sotto l’altare maggiore, con i nomi dei martiri in caratteri epigrafici del tempo, rinvenuta durante gli scavi del 1915, sembra consolidare tale ipotesi. L’epigrafe di Celestino III, infatti, menziona il 10 maggio, anniversario del martirio dei due santi, e non il 6, data dell’Evangelista. Anche Orietta Sartori ritiene improbabile ancorare massicci lavori di ricostruzione ai decenni precedenti il 1191. L’epoca di maggiore fortuna dell’edificio può infatti considerarsi conclusa già alla metà del secolo; inoltre la chiesa, intorno al 1170, risultava funzionante per la tradizionale festività della stazione pasquale ivi celebrata.