martedì 30 ottobre 2012

Oriente cristiano: la Rotonda di San Giorgio a Salonicco



L’attuale Salonicco (un tempo Tessalonica, uno dei principali centri dell’Impero bizantino) è, insieme con Roma e Ravenna, luogo fondamentale per la ricostruzione degli orientamenti pittorici nell’Oriente e nell’Occidente cristiano di V secolo. La città sorse sulla Via Egnatia, una strada che, ricollegandosi all’Appia, da Brindisi giungeva fino in Albania (Durazzo), quindi in Grecia dove, passando per Tessalonica, continuava verso Costantinopoli. Sin dall’epoca tetrarchica, con Galerio (290- 311), essa assunse una discreta importanza. Coreggente di Diocleziano, cesare nella prima tetrarchia e augusto nella seconda e terza tetrarchia fino alla morte, sopraggiunta nel 311, egli fece realizzare a Tessalonica almeno due edifici: un arco di trionfo e una struttura circolare sorta in prossimità del palazzo imperiale. Il sito divenne presto sede del prefetto dell’Illiria e in seguito un apprezzabile centro bizantino. L’area urbana all’interno della cinta muraria, edificata da Teodosio I, era molto ampia. Se l’ippodromo e il palazzo imperiale sono andati perduti, l’arco di Galerio, detto anche camara - termine greco che indica una superficie voltata – e la rotonda, un'aula civile, prima trasformata nella chiesa di San Giorgio e in seguito divenuta moschea, testimoniano la sua fase tardo antica. L’arco di Galerio, quadrifronte, fu eretto nel 305 per commemorare la vittoria dell’imperatore sui persiani. Esso sorse sul punto di convergenza di due assi viari: una via monumentale porticata - dalla funzione processionale e civile - che conduceva all’ingresso della rotonda, e un altro asse che, attraversando la città, all’altezza delle mura si ricollegava con la Via Egnatia.[1]
Intorno al VII secolo la rotonda, in principio consacrata alla Potenza divina o agli Angeli, fu dedicata a san Giorgio. Costruita nel 300 da Galerio, essa nacque con una funzione civile, verosimilmente come aula di rappresentanza e più precisamente come sala del trono[2]. Due ipotesi campeggiano circa la sua antica funzione: poteva trattarsi del mausoleo di Galerio, sepolto a Romuliana in Serbia, oppure di un tempio dedicato a Zeus. La scelta di una pianta centrale è singolare e innovativa per l’architettura greca del tempo, ed è ispirata al Pantheon, eretto da Agrippa intorno al 27 d.C. e trasformato, agli inizi del VII secolo, in una chiesa cristiana dedicata a Santa Maria ad Martyres. [3] Come nel Pantheon, l’ingresso della rotonda di Salonicco era preceduto da un protiro e il vano centrale era coperto da una cupola di 24 metri di diametro, alla cui sommità era un oculo. In occasione della realizzazione dei mosaici l’oculo fu occultato dalla costruzione di una vera e propria copertura cupolata[4].
La cortina muraria è caratterizzata da mattoni con filari alternati di pietre e cotto, secondo una tecnica che un secolo più tardi sarebbe stata utilizzata per le mura di Costantinopoli. L’interno comprendeva un alto registro con finestre centinate e otto vani rettangolari voltati a botte, introdotti da colonne architravate e alternati a pilastri alleggeriti da nicchie frontonate contenenti statue.
Verso la fine del IV secolo, con Teodosio I, si procedette alla trasformazione della rotonda in cappella palatina. Intorno al 400 – 450, in occasione di tale trasformazione, fu aggiunta un’abside, fu accentuato il protiro e furono inserite delle tombe monumentali. Gli otto vani, originariamente chiusi, furono aperti al fine di ottenere una sorta di deambulatorio circolare, costruito in calcestruzzo e rivestito di mattoni.



La decorazione dell’interno era composta di rivestimenti marmorei e da un ricco programma musivo, solo in parte conservato. Il mosaico che adorna la cupola costituisce la più importante testimonianza di pittura monumentale di V secolo superstite in area orientale. La sua datazione è discussa e oscilla tra la fase teodosiana (fine IV), il V secolo e gli esordi del VI. Il mosaico della cupola era organizzato in tre fasce, alla cui sommità spiccava una Visione celestiale accolta dalle figure acclamanti delle bande sottostanti. A un primo medaglione con Cristo sorretto da quattro angeli alati, risponde una seconda banda, quasi del tutto perduta, della quale rimangono resti di un terreno erboso, tracce di vesti candide e di piedi posti in varie posizioni. I frammenti riguardano un coro di circa ventiquattro figure. Si tratta di un corteo simile a quello degli apostoli del Battistero Neoniano. Il quasi del tutto integro registro inferiore, posto sotto una banda resa con elementi geometrici zoomorfi e fitomorfi [5], è caratterizzato da un fondo aureo. La fascia, delimitata da una fittizia trabeazione e da una finta cornice a mensola, misura circa otto metri ed è suddivisa in otto pannelli larghi sei metri, inquadrati da naturalistiche candelabre vegetali. Ognuno dei sette pannelli superstiti è di qualità scenografica altissima e comprende due livelli di edicole coperte da cupolette o sormontate da frontoni con dei grandi fondali che nella parte inferiore si squadernano come complesse quinte architettoniche. Sia le architetture, sia lo sfondo sono resi con tessere auree: ne deriva che l’effetto di tridimensionalità creato dalle quinte scenografiche è immediatamente contraddetto dal fondo oro e dal tono su tono delle architetture. All’interno di queste strutture illusive si stagliano figure di santi oranti, immagini bidimensionali, costruite attraverso la linea, delle quali si osservano i sontuosi manti e i cui corpi sono soltanto immaginabili. Le architetture erano popolate da tendaggi, da pavoni e da volatili cari al simbolismo cristiano. Le figure di oranti, individuate da iscrizioni, inconsistenti e ieratiche, raffigurano martiri militari, privi di attributi di santità. Alcuni volti sembrano ispirarsi a dei ritratti antichi che, seppure idealizzati, non sono privi di una caratterizzazione individualizzante. In altri, la tendenza alla geometrizzazione e all’astrazione, alla semplificazione geometrica, prevale su qualsiasi tipo di carattere individuale.

L’ iconografia del mosaico di San Giorgio, espressamente pensata per lo spazio di una cupola, svolge il tema della Parusia, o II venuta di Cristo il quale, con una chiara allusione alla Gerusalemme celeste, è accolto e acclamato dalle figure rappresentate nelle sottostanti fasce.
E. Kitzinger propendeva per una sua datazione entro la metà del V secolo, al tempo della conversione della rotonda in chiesa cristiana, probabilmente ai decenni appena precedenti il 450. Lo studioso aveva insistito soprattutto sulla persistenza dell’illusionismo spaziale di matrice ellenistica. Kitzinger sosteneva come il tema base adottato a Salonicco non fosse troppo distante e dissimile da quello che costituisce il fulcro della decorazione di Galla Placidia. Anche nella rotonda, una visione celestiale alla sommità era accolta da un gruppo di figure acclamanti nella zona inferiore. Quanto al legame con la cultura figurativa ellenistica, rinviano a questo tipo di tradizione figurativa sia la decorazione di una cupola, di una volta o di un soffitto a cupola secondo una sequenza di cerchi concentrici o bande, sia la soluzione della banda più esterna e bassa con una sorta di zoccolo o dado, sorretto e completato da fregi e cornici fittizie.
Circa il programma e le soluzioni scelte, dunque, la rotonda può essere felicemente confrontata con la cupola del battistero degli Ortodossi e con il Mausoleo di Galla Placidia a Ravenna, a testimonianza di come le radici delle commissioni placidiane vadano in direzione dell’oriente cristiano. 
Le ventiquattro figure del secondo registro, rappresentate in diverse pose, alcune addirittura di spalle, erano in attivo contatto con il Cristo trionfante del medaglione, sorretto da Angeli monumentali e introdotto da tre elaborate cornici. [6]  Il programma fu pensato in relazione allo specifico significato iconografico e alla composizione visiva che influiva sulla struttura architettonica. A un’attenta analisi dell’impianto compositivo emerge un dato interessante: la diversa natura dei tre registri. Nella fascia illusionistica, o apparentemente tale, la percezione dello sfondamento della parete era contraddetta dall’oro su oro degli edifici – diafani e immateriali - e dalle figure bidimensionali dei martiri oranti, gli atleti di Cristo immersi nei loro “palazzi celesti”.[7]. Il terzo registro si connotava come muro chiuso e la superficie piana della parete era completamente “accettata” dalle frontali figure di santi. Tale percezione contrastava con i caratteri di dinamicità e di naturalismo della banda immediatamente superiore, suggeriti dallo sfondo verde chiaro e dalle pose dei ventiquattro Seniores. In alto, nel medaglione, la figura di Cristo sorretto dagli angeli dava l’idea di uno spazio aperto, dettato dalla visione celestiale. Secondo Kitzinger, il disegno globale della decorazione di San Giorgio “aveva radici nella tradizione del primo secolo a. C., dove la parte superiore del muro era elaborata in modo tale da suggerire l’idea di uno spazio aperto al di sopra di una zona chiusa con uno zoccolo fittizio”.[8]










[1] Tale asse aveva la stessa funzione della Mese costantinopolitana.
[2] Krautheimer 1993, p. 87.
[3] L’edificio fu trasformato dall’imperatore Foca durante il pontificato di Bonifacio IV.
[4] La cupola del Pantheon misura circa 43 metri, mentre quella di Santa Sofia ha un diametro di 31 metri.
[5] Si tratta di motivi diffusi in area sasanide.
[6] Le tre fasce presentavano un motivo ad arcobaleno, un inserto floreale, e una decorazione a cielo stellato.
Tra gli angeli alati trovava spazio anche una fenice.
[7] Kitzinger 2005, p. 61.
[8] Kitzinger 2005, pp. 60-61.
(http://www.flickr.com/photos/sainthadrian/4113437282/in/photostream/)

domenica 28 ottobre 2012

L'icona di Santa Maria Nova a Roma


L’icona di Santa Maria Nova (1), ubicata nell’omonima basilica del Foro Romano (oggi Santa Francesca Romana) ma trasferita di recente nei locali dell'Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro (ISCR) per essere sottoposta a restauro conservativo, è forse la più antica immagine mariana preiconoclasta presente a Roma. L’icona, che raffigura un’Odigitria dexiokratousa nel gesto di indicare il Bambino con la mano sinistra, è realizzata a encausto, una tecnica utilizzata nei ritratti del Fayum dell’Egitto romanizzato che prevede l’uso della cera calda su tavola di legno preparata con tela e gesso. Essa proviene dall’attigua basilica di Santa Maria Antiqua, fondata nel VI secolo in un gruppo di edifici domizianei nel Foro Romano, e abbandonata nell'847 in seguito a un terremoto.


1. Roma, Santa Marina Nova. Icona della Vergine Odigitria. 

Il Liber Pontificalis, a questo proposito, attesta a Santa Maria Antiqua la presenza di una preziosa imago del tempo di Sergio I (650-701), la quale, stando alla fonte, sarebbe stata realizzata in occasione della trasformazione del vestibolo pagano in santuario cristiano dedicato alla Vergine.

L' Odigitria è stata più volte ridipinta nel corso dei secoli. Fino agli anni Cinquanta del 1900 si presentava ancora come un’icona tardo cinquecentesca. Durante le moderne indagini tecniche e di restauro, vi è stato riscontrato inoltre uno strato pittorico duecentesco, sovrapposto a una pittura più antica limitata ai volti di Maria e del Bambino.

Danneggiata da un incendio, la sua datazione oscilla tra il V e il VII secolo. È probabile che essa risalga alla seconda metà del VI, e che fu realizzata in concomitanza con la trasformazione dell’edificio pagano che ospitava il corpo di guardia ai piedi del palazzo del Palatino in chiesa cristiana, avvenuta sotto Giustino II (565-578). L'icona mostra infatti delle affinità stilistiche con l’Angelo Bello della parete palinsesto di Santa Maria Antiqua (2-3), eccezionalmente aperta al pubblico fino al 4 novembre 2012.


2. Roma, Santa Maria Antiqua. Parete palinsesto.

3. Roma, Santa Maria Antiqua. Dettaglio parete palinsensto con il volto dell'Angelo bello. 

Fonti principali:

M. Andaloro, L'icona cristiana e gli artisti, in Aurea Roma: dalla città pagana alla città cristiana. Catalogo della mostra a cura di  S. Ensoli e E. La Rocca, Roma, Palazzo delle Esposizioni, 2000-2001, pp. 416-424. 
M. Andaloro, Theotokos di Santa Maria Nova, in Aurea Roma cit., pp. 660-661. 
M. Andaloro, Dal ritratto all'icona, in M. Andaloro-S.Romano, Arte e iconografia a Roma dal Tardoantico alla fine del Medioevo, Milano 2002, pp. 23-54. 



venerdì 26 ottobre 2012

Così reali da essere irreali. I disegni di DiegoKoi





Le immagini qui riprodotte non sono foto, ma disegni fatti con carta e matita. Della bravura tecnica di Diego Fazio, in arte DiegoKoi, stanno parlando molti siti italiani e americani, rimasti sbalorditi dai suoi disegni "così reali da essere irreali", e da sembrare vere e proprie fotografie. Il giovanissimo artista italiano, un autodidatta classe 1989, originario di Lamezia Terme (CZ), sul suo sito internet spiega che:

"Entra a far parte del mondo dell'arte dilettandosi nel disegnare opere per eventuali tatuaggi realizzando su richiesta diversi lavori. Ispirandosi a grandi artisti giapponesi del periodo Edo come Katsushika Hokusai, DiegoKoi e' riuscito ad appassionare l'occhio delle persone con le sue linee precise e tecniche orientali".






Nel 2011 vince il "Premio del pubblico miglior Artista NonfermArti 2011" e il "Premio sezione pittura NonfermArti 2011" , che gli vengono conferiti nella provincia di Cosenza in occasione dell'evento artistico Nonfermarti 2011. Nel marzo 2012, DiegoKoi vince la selezione del Premio Internazionale Arte Laguna di Venezia con l'opera "Sentenza" e, nello stesso anno, è finalista di uno dei premi più prestigiosi in Italia, il Cairo di Milano, con l'opera Raptus. 
Malgrado nella sua biografia egli rilevi il legame con l'arte giapponese, il suo percorso artistico sembra piuttosto riflettere una sorta di "ritorno all'ordine", espresso in una ritrovata dimensione figurativa fondata sul recupero della tradizione italiana. Nel 1989, quando il giovane pittore nasceva, Argan - noto critico d'arte - scrisse che "Fu attraverso il confronto con la fotografia che l'arte andò via via distaccandosi, per differenziarsi, dal concetto classico della mimesi, e si costituì in proprio una morfologia e un lessico senza radici naturalistiche". Ben presto, "la fotografia invase anche quel dominio: si presentò come operazione più mentale che tecnica, potenzialmente creativa come e più dell'arte", e cessò di essere una fedele trascrizione del realeLungo il corso del Novecento, poi, pittura e fotografia si confrontarono costantemente sia sul piano pratico, come testimoniano molti movimenti di respiro europeo e internazionale quali l'impressionismo, il realismo, l'iperrealismo e il postmoderno, sia sul piano teorico. Oggi quel "concetto classico della mimesi", per dirla con Argan, sembra riaffermarsi con forza nell'opera di questo giovane artista (e non solo, vedi gli oli di Robin Eley), producendo una significativa inversione di rotta rispetto all'arte d'avanguardia e a quella concettuale degli ultimi anni, allo scopo forse di dimostrare la "superiorità" del "mezzo grafico" su quello fotografico. 




giovedì 25 ottobre 2012

La Nuova Oggettività tedesca


di Silvia Di Summa

“Desidero ordinare in autunno una mostra di pittura e di grafica di media dimensione che sarà intitolata “Die Neue Sachlichkeit”. Mi interessa mettere insieme opere rappresentative di quegli artisti che negli ultimi dieci anni non sono stati né impressionisticamente sfatti, né espressionisticamente astratti, né puramente legati alle proprie sensazioni esterne, né puramente costruttivi. Voglio far vedere quegli artisti che sono rimasti fedeli alla realtà positiva e tangibile, o sono tornati ad esserle fedeli, trattandola secondo modi riconoscibili”.

GUSTAV F. HARTLAUB, LETTERA CIRCOLARE, 18 MAGGIO 1923

Otto Dix, Alla bellezza, 1922, Wuppertal, Von der Heydt-Museum.
Esposto nel 1925 alla mostra “Neue Sachlichkeit. Pittura tedesca dopo l’Espressionismo”.


Il critico tedesco, direttore della Kunsthall di Mannheim, inviò questa lettera a galleristi, funzionari di musei e critici. È questo il primo progetto della mostra poi intitolata “Neue Sachlichkeit. Pittura tedesca dopo l’Espressionismo” che, per varie difficoltà, si sarebbe aperta solo nel 1925. Già a partire dal 1920, però, si riscontra la necessità di maggiore realismo e chiarezza in una Germania che, da poco uscita sconfitta dalla Prima Guerra Mondiale, portava ancora evidenti ed irrisolti i segni di un conflitto che le era costato quasi due milioni di morti e più di quattro milioni di feriti, tra cui innumerevoli mutilati gravi; la propagazione in diverse città di numerosi focolai di insurrezione, poi trasformatisi in guerra civile; l’accettazione di una pace che le impose pesanti sanzioni economiche, politiche e psicologiche. Quella stessa Germania che nel 1914 aveva accolto con gioia l’entrata in guerra, salutata come “purificazione, liberazione, enorme speranza”, si trovava ora a dover fronteggiare un’inflazione incontrollabile (il 1923 è l’anno in cui l’inflazione precipita e lo sfacelo economico tocca il suo picco massimo) e una dilagante disoccupazione, una forte criminalità e un impetuoso aumento della prostituzione.
L’Espressionismo, con suoi caratteri di estasi e liricità, i furori coloristici e la ribellione incontrollata, non si ritiene più adeguato in questo contesto: all’arte non viene più richiesta un’interpretazione o una trasfigurazione della natura, ma una descrizione esatta ed impersonale, in uno stile volontariamente semplice, nella volontà di un preciso ritorno alle cose. 
“La situazione è oggi tale che il nostro interesse principale va alle componenti oggettive della nostra immagine nel mondo. Avvertiamo un rifiuto istintivo nei confronti degli elementi soggettivi. Desideriamo eliminarli per quanto è possibile; si, non siamo lontani dal concepirli come disturbi e falsificazioni” scrive nel 1925 W. Michel. 
G.F. Hartlaub, dopo aver rimarcato la volontà della pittura recente di tornare a una rappresentazione oggettiva e volumetrica della realtà dopo gli eccessi soggettivi dell’espressionismo, ne individuava nel 1923 una netta distinzione al suo interno: “Vedo un’ala destra e una sinistra. La prima, conservatrice fino al classicismo, affonda le radici in una dimensione fuori dal tempo e vuole nuovamente santificare, dopo tanta stravaganza e caos, il “sano”, la corporeità plastica nel disegno puro secondo natura, esasperando il “terreno”, il tutto tondo. Michelangelo, Ingres, Genelli, gli stessi Nazareni sono i loro testimoni. 

L’altra, l’ala sinistra, fortemente contemporanea, molto meno preoccupata dell’arte, nata anzi dalla negazione dell’arte, con la ricerca di affermazioni primitive, di una nervosa messa a nudo di se stessi, cerca lo scoperchiamento del caos, "vero volto del nostro tempo”. Mentre il primo gruppo è, dunque, volto alla ricerca di “un’oggettività fuori dal tempo”, il secondo è indirizzato alla descrizione del mondo contemporaneo. Narrazione statica, pittura plastica, richiami costanti alla storia dell’arte, compiutezza del disegno e precisione della linea, rappresentazione del reale attraverso la purezza e la geometria caratterizzano, pur nella grande diversità reciproca, i membri dell’ “ala classicista” della tendenza, tra i cui maggiori esponenti si annoverano Alexander Kanoldt, Georg Schrimpft, Carlo Mense ed Heinrich Maria Davringhausen. Essa, che ha il suo centro principale a Monaco intorno alla galleria Neue Kunst diretta da Hans Goltz, mostra un nuovo ripensamento ed una nuova attenzione verso la pittura tedesca del primo Ottocento ed un interesse per l’arte italiana, sia antica sia contemporanea, soprattutto rivolto al classicismo di Carrà e De Chirico, favorito dalla circolazione della rivista “Valori Plastici” di cui Goltz aveva l’esclusiva in Germania. È possibile, tuttavia, scorgere, anche dietro gli accenti idilliaci di questa pittura, quella stessa dimensione drammatica che, propria di un comune periodo storico, viene messa a nudo, in toni completamente diversi, dall’ “ala verista”. Dresda, Karlsruhe, ma soprattutto Berlino sono le tre città in cui si muovono i componenti dell’ “ala sinistra” della Neue Sachlichkeit, Scholz, Dix, Grosz, Schlichter per citarne i maggiori, artisti per i quali l’impegno sociale e la volontà di immergersi nella realtà contemporanea ha preso il sopravvento sulla meditazione poetica o funzionale dell’oggetto. Dagli anni della guerra, ma soprattutto dall’immediato dopoguerra, l’arte berlinese si è caratterizzata per un’intensa partecipazione alle vicende politiche e sociali, tradotta senza mediazioni nelle opere; ed è proprio nell’ambito del dadaismo che si innesta e matura a Berlino l’esperienza neo-oggettiva, data la provenienza dalle sue fila dei suoi più rilevanti esponenti. Alla ricerca di un rapporto immediato con la realtà quotidiana, i “veristi” della Neue Sachlichkeit la rappresentano nei suoi aspetti deteriori di miseria e di violenza, perseguendo un’indagine spietata della società tedesca del tempo: il brutto, insieme alle prostitute e ai trafficanti di guerra, trova spazio nelle loro opere, talvolta in modo cinico e impietoso, talvolta in modo freddo e disincantato : il ritorno ad una figurazione chiara e comprensibile è intesa come strumento di denuncia.

Otto Dix, Tre prostitute nella via, 1925, Amburgo, collezione privata. 

BIBLIOGRAFIA
Annabelle Türkis, Dada Almanach, in DADA, catalogo della mostra, Parigi, Centre Georges Pompidou 2005, p. 320;
Antonello Negri, Carne e ferro. La pittura tedesca intorno al 1925, Scalpendi editore, Milano 2007;
Elena Pontiggia, La Nuova Oggettività tedesca, Abscondita, Milano 2002;
Jolanda Nigro Covre, L’arte tedesca nel Novecento, Carocci, Roma 1998, pp. 13-151
Peter Gay, La cultura di Weimar, Dedalo, Bari 2002;
U.W. Schneede, Vérisme et nouvelle objectivité, in DADA, Paris-Berlin, catalogo della mostra, Parigi, Centre Georges Pompidou 1978, ristampa Paris Gallimard 1992, pp. 182-203. 


domenica 21 ottobre 2012

Settis: Perché gli italiani sono diventati nemici dell’arte


"Si dà per scontato che il patrimonio culturale è un fardello che pesa sul budget dello Stato e non che possa divenire una riserva di energia per i cittadini e per le Nazioni. [...]La storia può dimostrare come il patrimonio culturale non sia un inutile fardello che ci trasciniamo da secoli in mancanza di nozioni economiche e politiche, ma come al contrario partecipi alla cosciente elaborazione di una strategia sociale destinata a formare e rafforzare l’identità culturale, i legami di solidarietà, il senso di appartenenza che sono condizioni necessarie di ogni società strutturata e, come riconoscono gli economisti con sempre maggiore chiarezza, sono anche un fattore non trascurabile di produttività. Se vogliamo comprendere i problemi del presente e del futuro col metro della storia secolare della conservazione, è quindi indispensabile comprendere storicamente le ragioni ultime della nozione di patrimonio e della sua funzione nelle società. 

[...] L’origine di questa cultura civica e giuridica si deve, credo, alle città italiane che, a partire dal XII secolo, elaborarono un potente concetto di cittadinanza secondo il quale i monumenti di ogni città costituivano un principio di identità civica e di identificazione emotiva che corrispondeva all’idea stessa del far parte di una comunità ben governata. Mi limiterò a citare due documenti. 1) La delibera della municipalità di Roma (1162) sulla Colonna Traiana, in virtù della quale, «per salvaguardare l’onore pubblico della Città di Roma, la Colonna non dovrà mai essere danneggiata o demolita ma restare così com’è, per tutta l’eternità, intatta e inalterata fino alla fine del mondo. Se qualcuno attenterà alla sua integrità, sarà condannato a morte e i suoi beni saranno confiscati dal fisco». 2) Gli Statuti della municipalità di Siena (1309) in virtù dei quali colui «che governa la città deve in primo luogo assicurare la sua bellezza e il suo ornamento, essenziali alla felicità e alla gioia dei forestieri, ma anche all’onore e alla prosperità dei senesi». In centinaia di documenti come questo leggiamo gli stessi principi: bellezza, abbellimento (decorum), dignità, onore pubblico, bene comune o publica utilitas."

sabato 20 ottobre 2012

Dalle «borzétte» di Enzina alle poesie di Bondi: una epopea


La professoressa Enzina Bono Parrino, tolto dalla «borzétta» un fazzolettino per asciugarsi una lacrimuccia, si versò commossa un bicchierino di Marsala. Era un giorno di novembre del 2010. Il deputato finiano Fabio Granata, ignaro del sollievo che avrebbe dato all’anziana preside in pensione, aveva appena pronunciato la fatidica sentenza: «Sandro Bondi è oggettivamente il peggior ministro dei Beni culturali della storia».
Tutta colpa, povera Enzina, della sua sincerità. Che subito dopo l’annuncio che sarebbe andata a giurare in Quirinale come responsabile dell’immenso patrimonio artistico, storico e monumentale, l’aveva spinta a schiantarsi in una dichiarazione suicida: «Per ora non so nulla, ma studierò. Mi chiuderò nel mio ufficio per una settimana a studiare». Una settimana! Una settimana per capire un mondo. Il fatto è che fare una graduatoria dei peggiori ministri dei Beni culturali è complicatissimo. La storia di questo dicastero la dice lunga sul rapporto tra il nostro Paese e le sue ricchezze, le sue bellezze, le sue fragilità, le sue contraddizioni.
 Meglio di così, in realtà, il ministero non poteva nascere. Nacque infatti su misura di uno degli intellettuali più colti del Ventesimo secolo, Giovanni Spadolini. Era la fine del 1974. Tutto iniziò con una telefonata. «Fu quando perse la direzione del “Corriere” nel 1972» racconta il grande costituzionalista Giovanni Sartori, amico suo dall’adolescenza. «Mi svegliò a metà notte (in quel momento era a Standtford, in California, e lui non badò alle nove ore di fuso orario che ci dividevano). Giovannone non se l’aspettava, era davvero smarrito. Mi raccontò che Malagodi si era fatto vivo per fargli le condoglianze (…) mentre Ugo La Malfa (più intelligentemente) gli aveva proposto un collegio per il Senato a Milano. Giovannone esitava: come si fa a scendere dall’impero di via Solferino a semplice senatore? Ancora sonnolento mi venne in mente di ricordargli che lui era il Padre della Patria, e dunque che perdere il “Corriere” non era sua sfortuna ma fortuna: era il segno che gli si apriva il percorso del suo vero destino. Confesso che dissi così per consolarlo. Fatto sta che subito dopo Spadolini telefonò a La Malfa accettando. Indovino io? No, bravo lui». Giovannone era davvero un peso massimo e non solo per stazza fisica. Aveva cominciato a scrivere la sua prima storia d’Italia quando aveva 15 anni, era diventato professore incaricato e aveva pubblicato Il papato socialista a 25, era diventato direttore del «Resto del Carlino» a 29, direttore del «Corriere» a 43. Insomma, era ingombrante perfino per la politica romana, di solito indifferente alla statura culturale dei suoi rappresentanti. Cosa fargli fare?
Il ruolo se lo cucì lui, su misura. Inventandosi quel ministero mai visto prima. Del quale definì lui stesso le linee fondanti. Era il dicembre del 1974. Poche settimane e un episodio clamoroso confermò quanto fosse indispensabile il dicastero: al Palazzo Ducale di Urbino sparì un Piero della Francesca. Lui, che voluminoso come era non aveva il profilo dell’uomo di azione, si precipitò sul posto, avrebbe ironizzato su se stesso, «come un lepidottero sopra un elicottero». Vide che i sistemi d’allarme erano un disastro, si dannò l’anima per strappare subito al governo una rete di antifurto. Che forse non fu risolutiva, ma certo bloccò un pericoloso andazzo.
Era un mostro, Spadolini. Aveva tenuto la sua prima conferenza a 17…Sapeva tutto, aveva letto tutto, ricordava tutto. Scriveva e scriveva. Con tanta abbondanza che oggi, il motore di ricerca del catalogo Sbn di tutte le biblioteche italiane annota, tra i libri, i saggi brevi, le prefazioni, i contributi vari a opere collettivi, la bellezza di 956 titoli...

Quanto ai paragoni con la grande maggioranza degli altri «eletti» via via subentrati alla guida del dicastero, meglio stendere un velo pietoso. Quale fosse il destino di quel ministero, infatti, fu chiaro fin dalla nomina del primo successore di Giovannone: Mario PEDINI. Possiamo immaginare che Spadolini levò gli occhi al cielo sospirando. Nel giro di tre anni, quel ministero che aveva fortissimamente voluto aveva già preso una brutta piega. Doveva essere, così l’aveva immaginato, il segno di una svolta. Di un riscatto. Di una presa di coscienza che quelle sono le nostre miniere d’oro: i siti archeologici, i musei, le gallerie, le biblioteche .Macché: era già diventato un dicastero secondario da smistare nella distribuzione delle poltrone a figure secondarie. E il peggio doveva ancora venire:Dario Antoniozzi,Egidio Ariosto,Oddo Biasini,Enzo Scotti. Fu con lui che grazie ai benefici della legge 285 per l’occupazione giovanile vennero assunti nel biennio 1981-82 interi battaglioni di custodi: 7000 in una botta sola. E fu con lui che vennero lanciati nel firmamento della politica tutti i bla-bla-bla nei quali da allora in poi si sarebbero esercitati tutti, Bondi compreso. L’idea di coinvolgere i privati. Le fondazioni e lo spazio ai manager. La «valorizzazione». Il capolavoro, però, è l’impegno sugli sgravi fiscali, il tormentone di ogni governo. 

Alberto Ronchey, scelto come «tecnico» da Giuliano Amato nel giugno del 1992 e confermato l’anno dopo da Carlo Azeglio Ciampi, fu un ministro coi fiocchi...Su un punto Ronchey era convintissimo: il patrimonio artistico, monumentale e culturale italiano è così importante che un ministro dovrebbe concentrarsi solo su quello...Pretendono che il ministero dei Beni culturali, ossia del patrimonio storico, debba fondersi con i resti del dicastero già dedicato insieme allo sport e allo spettacolo, con tredici enti lirici, innumerevoli compagnie di prosa, cinema, festival e circhi equestri che chiedono sovvenzioni a pioggia. Ma si confondono così tutela e produzione, riversando sullo Stato il rischio d’impresa che tanto è costato negli ultimi anni. Produrre film a rischio di gravi perdite non è come conservare, tutelare, valorizzare un patrimonio di valore sicuro anche se d’incalcolabile portata. La fusione con lo spettacolo mi ha sempre ricordato l’apologo surreale delle galline russe che propongono ai suini tedeschi società miste per fabbricare uova al bacon. È ragionevole?».
No, secondo lui: «Se il ministro dei Beni culturali si deve occupare di calcio e di festival del cinema o addirittura della produzione di un film, non fa un buon servizio né ai Beni culturali né al resto. Un ministro deve sapere come stanziare i finanziamenti per la conservazione, la valorizzazione, il restauro d’un dipinto, una scultura, un’architettura del suo patrimonio storico?».

Macché…

La svolta è con Walter VELTRONI. Che come uomo di punta del partito socio di maggioranza del governo Prodi rivendica non solo la vicepresidenza del Consiglio ma anche un ministero, come dire, «largo» alla Jack Lang, ministro della Cultura di François Mitterrand. Certo, dopo il ministero della Cultura Popolare Fascista, il famigerato MinCulPop, la parola è tabù…Ma quello è il ruolo che si ritaglia Veltroni: ministro al tutto. Con una delega allo Sport e agli Spettacoli…Per carità, Veltroni respingerà l’accusa di essersi troppo distratto con lo sport, il cinema, la musica e tutto il resto rivendicando di essere stato lui, ad esempio, ad avviare il processo di autonomia a Pompei. Vero. Ma certo è lui a inaugurare la terza stagione dei Beni culturali dopo quella spadoliniana e quella dei ministri di secondo piano. È dalla sua gestione in poi che quella scrivania torna a essere assai appetita anche da pezzi grossi dei partiti, come ad esempio Francesco Rutelli, Rocco Buttiglione o Sandro Bondi.
Ed è così che via via, come ha scritto Pierluigi Battista, «un ministero quasi di secondo piano» ha gradualmente «assunto un’importanza sempre maggiore, fino al punto di trasformarsi in quello “Stato culturale” che, soprattutto sulla scorta dell’esperienza francese di Jack Lang, viene criticato da Marc Fumaroli come una nuova e spregiudicata industria del consenso, oltre che una moderna vetrina del potere, con i ministri che passano il tempo a inaugurare le mostre del cinema, presenziare alle manifestazioni sportive, tagliare nastri davanti alle telecamere».

Telecamere in certi casi traditrici. Come accadde a Giovanna MELANDRI, la prima che, grazie al decreto legge n. 368 dell’ottobre 1998, ebbe il ministero cucito addosso con le nuove competenze allargate, comprese «le attribuzioni in materia di spettacolo, di sport e di impiantistica sportiva» e la «promozione delle attività culturali in tutte le loro manifestazioni con riferimento particolare alle attività teatrali, musicali, cinematografiche, alla danza e ad altre forme di spettacolo, inclusi i circhi e spettacoli viaggianti, alla fotografia, alle arti plastiche e figurative, al design industriale».
Accadde dunque che, presa da tanti impegni, la giovane e bella ministra «bigiò» la prima della Scala del 1998 del Crepuscolo degli dei. Il maestro Riccardo Muti se la prese, lei replicò scrivendogli una lettera: «Caro Maestro, sono sorpresa della sua sorpresa. Avevo da tempo comunicato al soprintendente Fontana che mi era purtroppo impossibile, per motivi del tutto personali, essere a Milano per l’inaugurazione». Ahi ahi … La sera dopo Striscia la Notizia rivelava quali erano quei motivi del tutto personali. Una cena organizzata dal Gambero Rosso con i migliori chef italiani. Dove aveva particolarmente apprezzato, riferirono le cronache, «Il foie gras preparato in dieci modi da Heinz Beck, tedesco naturalizzato romano, con un Arenarie di Sella e Mosca» e «la minestra di riso con le verze di Nadia Santini, preceduta da uno Chardonnay Planeta e profumata da un Taurasi Feudi di San Gregorio». Quanto bastava perché Roberto Formigoni, nella veste di governatore lombardo e di polemista berlusconiano, liquidasse un paio di anni dopo nuove polemiche scaligere così: «Dov’era due anni fa quella che oggi s’impanca a maestrina dalla penna rossa? Dove era la Giovanna Melandri alla “prima” di due anni fa? Alla serata del Gambero Rosso era. Era andata a magna’»…


Beni culturali, ministri per caso (dal libro Vandali. L'assalto alle bellezze d'Italia, di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo - Rizzoli 2011)

Cappella Arcivescovile o Oratorio di s. Andrea a Ravenna



1. 

Attraversando le scale del Museo episcopale di Ravenna, si accede alla Cappella Arcivescovile, eretta da un vescovo di nome Pietro, identificato forse con Pietro II, episcopo dal 494 al 519, in piena età teodericiana.  L’oratorio è preceduto da un vestibolo rettangolare sulle cui lunghe pareti sono riportati a mosaico venti esametri latini – non originali - a noi noti per la descrizione fattane nel IX secolo dallo storico Andrea Agnello. Il primo di essi, assai significativo, mette in risalto la poetica della luce che si propaga dalla superficie musiva: Aut lux hic nata est aut capta hic libera regnat (la luce è nata qui, oppure, fatta prigioniera, qui regna libera).

Al di sopra della porta d’accesso al vestibolo è mosaicato un Cristo guerriero, la cui metà inferiore è interamente di restauro, seppure eseguita su tracce sicure. La testa cinta da un nimbo crucisignato Egli veste una corazza e una clamide e si presenta frontalmente nell’atto di calpestare le cervici di un leone e di un serpente, simboli delle forze del male. Con la destra sorregge una croce mentre con la sinistra un codice aperto, sulle cui pagine si legge “Ego sum via, veritas et vita” (1).


2. 

L’oratorio è concluso da una piccola abside, decorata nella conca da un cielo stellato in mezzo al quale campeggia una croce. 
La volta a crociera (2), a fondo d’oro, presenta al sommo un medaglione contenente le lettere I (iota) e X (chi) intrecciate, iniziali di Gesù Cristo (Iesùs CHristòs). Il clipeo è sorretto da quattro Angeli delineati lungo le linee ascensionali delle costolonature della volta, intercalati ai quattro simboli dei Viventi : l’Aquila (Giovanni), l’Uomo (Matteo), il Vitello (Luca), e il Leone (Marco).
Nei sottarchi a est e a ovest sono raffigurati, entro medaglioni circolari, i busti degli Apostoli ai lati di quello del Cristo (3), mentre a sud e a nord i busti di sei santi (in parte rifatti) e di sei sante, adorne di pietre preziose e di un bianco velo di seta che scende dietro le loro spalle (4).


3. 

4. 

Fonte principale:
G. Bovini, Ravenna. Mosaici e monumenti, Ravenna 1991, pp. 123-129

giovedì 18 ottobre 2012

L'Apocalisse nel Medioevo: fonti letterarie e iconografiche





Prima del IV secolo inoltrato un immaginario apertamente apocalittico fatica ad affermarsi. Ed è probabile che a questa sua iniziale scarsa fortuna abbia contribuito il simbolismo eccessivamente complesso e poco fruibile da parte di una comunità cristiana estremamente eterogenea[1]. Tra la fine del IV e gli inizi del V secolo, a proposito del commento sui capitoli 4 e 5 dell’Apocalisse, emersero con vigore due distinte scuole di pensiero. La prima, facente capo al donatista Ticonio (370-390 circa) e in auge fino al XIII secolo[2], ha considerato le immagini apocalittiche quali allegorie del primo avvento di Cristo e della sua attuale presenza nel tempo della Chiesa. La seconda, seguita da Girolamo (347-420 circa) e successivamente da Paolino di Nola (355-431) e da Cassiodoro (485-580 circa)[3], le ha interpretate come scene della Parusia e ha assegnato loro un significato escatologico[4].
Ricorrendo a un attento esame delle fonti letterarie medievali, Corsini ha dimostrato come l’Apocalisse, nella sua comprensione post-costantiniana, non debba essere più assimilata in blocco a una visione della fine dei tempi[5]. Nel IV secolo, dopo la pax di Costantino, essa era stata percepita quale elemento d’ostacolo al pensiero cristiano di riconciliazione della Chiesa e dello Stato. In ragione delle sue velate invettive contro Roma e il ruolo dell’imperatore, e soprattutto della sua tensione escatologica, il testo impediva, in un certo senso, una riappacificazione della Chiesa in seno alla compagine imperiale. La volontà di Ticonio di eliminare tutti i riferimenti storici trasferendo l’insieme delle rivelazioni di Patmos sul piano allegorico, non poteva che essere ben accolta dagli alti vertici della gerarchia ecclesiastica. In più, il carattere costantemente ecclesiale del suo allegorismo ben si accordava con le ambizioni di una Chiesa trionfante sempre più cosciente del proprio ruolo storico. Non a caso, nelle prime manifestazioni iconografiche, il trono dell’Anonimo assume l’aspetto di un solium regale e i Ventiquattro Saggi – come si vede sull’arco trionfale di San Paolo f.l.m. (1) – non sono mai rappresentati seduti (Ap 4,6), bensì ritti in piedi, spesso a testa nuda, cerimoniosamente allineati nell’atto di presentare al proprio sovrano l’aurum coronarium che si deve al perpetuo vincitore[6]. L’utilizzo del formulario imperiale e la scelta sistematica di schemi trionfali e aulici, a esclusione di scene di sottomissione dei vinti, ci parlano dunque di un’epifania vittoriosa[7].

1. 

La letteratura medievale ha spesso riconosciuto nella grandiosa visione dei capitoli 4 e 5 una rivelazione della realtà presente, lungi dal confondere Apocalisse e ‘fine dei tempi’. Sarebbe forse lecito domandarsi se esista, a questo proposito, un legame tra esegesi e iconografia, tra le riletture di Vittorino di Pettau[8] (304) e di Ticonio e i programmi pittorici monumentali[9]. I riferimenti ‘iconografici’ e quelli propriamente testuali possono correre, infatti, su due binari paralleli. Nelle fonti esegetiche vige un’interpretazione dominante di carattere ecclesiale che, a partire da Vittorino di Petovio, seguito da Ticonio, Agostino d’Ippona (354-430), Primasio vescovo di Adrumeto (VI secolo) e Gregorio Magno (540-604 circa), rimane sostanzialmente invariata nel tempo[10]. Anche per i commentatori medievali di IX-XII secolo, i passi di Ap 4,5 non illustrano la fine dei tempi, né acquisiscono un carattere deutero-parusiaco o escatologico, ma alludono piuttosto ai tempi della Chiesa e, segnatamente, al momento che precede la seconda Resurrezione del Cristo. In questo senso, la posizione del teologo Ambrogio Autperto, abate di S. Vincenzo al Volturno (781 circa), appare eloquente. Rifacendosi all’esegesi agostiniana, il monaco benedettino interpreta alcune omissioni di Ap 4,5 come una precisa volontà, da parte dell’autore, di mantenere nel tempo della prima venuta del Cristo, cioè della sua prima Resurrezione, la visione soprannaturale dei due capitoli. Più avanti l’adozionista Beato di Liébana (730-798 circa) assume la stessa posizione, rifiutando una lettura in senso escatologico dei passi[11]. Diversamente, a partire dal IX secolo le immagini, i tituli o i commenti offerti a proposito delle iconografie riferibili ad Ap 4,5 o ad altri passaggi (Ap 7; 14) possono incarnare anche un significato escatologico. Al di là delle Alpi, in epoca carolingia, l’immagine monumentale della Gloria di Dio ispirata ad Ap 4 è considerata, se non una visione della seconda Parusia, una divina rivelazione che l’annuncia[12]. Dalla fine dell’VIII secolo, specialmente al di fuori dell’Urbe, si afferma una nuova interpretazione iconografica e iconologica di Ap 4,5, in contraddizione con i primi commenti alla fonte neotestamentaria. Se nell’arte paleocristiana non si conserva alcun esempio di illustrazione da leggere e interpretare in riferimento alla parusia del Cristo nel Giudizio finale (Ap 21), successivamente, come si vede sui portali di Saint-Denis (2) o di Saint-Trophime ad Arles (3), si assiste a una sovrapposizione e a una sinossi di diversi temi iconografici, improntati sui passi di Mt 19, 28; 24, 29-31, 24, 31-46, di Ap 4, 2-6 e di Ap 21, 11-15, da spiegare in senso parusiaco. 

2. 

3.


Nel contesto escatologico antiariano occidentale e romano di VI-XII secolo, inoltre, alcune immagini di ispirazione apocalittica, come quella dei due san Giovanni colti nel gesto di indicare l'Agnus Dei o il Cristo, improntata su Ap 11, 3-13 e sulla grandiosa visione di Ap 4-5, vengono spesso utilizzate per significare l’Invisibile, ricondotto al mistero dell’Incarnazione[15]. Così, ad esempio, nelle pitture murali dei Santi Silvestro e Martino ai Monti (4), di Santa Susanna e del sacello di San Lorenzo fuori le Mura (VIII secolo), o nei mosaici di Santa Marina in Domnica (5) e della basilica superiore di San Clemente (1118 ca.) a Roma. 

4.

5. 

Pur arricchendosi di numerosi livelli interpretativi, la traduzione figurata di Ap 4,5 che, fra V e XIII secolo, si sivluppa negli edifici di culto romani rimane comunque aderente ai suoi prototipi paleocristiani e solo in rari casi assume una connotazione escatologica. A Roma, il tema dell’Adorazione dell’Agnello o dell’Anonimo trova un exploit solo a partire dal V secolo, come dimostrano i primi esempi coevi: dalla perduta decorazione della facciata di San Pietro in Vaticano, tramandata da un disegno dell'Eton College (6) a quella, anche scomparsa ma documentata dalla sua copia ottocentesca, di San Paolo fuori le Mura[13]. I Viventi e i Vegliardi attorno all’Anonimo e all’Agnello partecipano, in questo caso, ai fasti di una liturgia celeste che celebra la Resurrezione e la Maestà del Cristo. Essi tramutano in immagine quanto teorizzato da Ticonio, la cui nuova lettura esegetica dell’Apocalisse risulta diffusa proprio dalla pittura monumentale e miniata di V e VI secolo[14]

6. 




[1] BISCONTI 1980b, p. 212.
[2] Alla fine del IV secolo in materia d’interpretazione dell’Apocalisse si verifica una rivoluzione esegetica, di cui è responsabile proprio l’africano eretico donatista Ticonio. La sua opera, purtroppo perduta, è nota tramite Primasio e Cesario d’Arles per il VI secolo, e Beda, Ambrogio Autperto e Beatus per i secoli successivi. CHRISTE 2006, pp. 275-292.
[3] Alla visione ticoniana si contrappongono i tituli della decorazione absidale della chiesa di Fondi, scritti da Paolino di Nola, il quale sembra considerare il trono vuoto corredato della Croce un’allegoria del ritorno di Cristo Giudice. Per lui e, più avanti, per Cassiodoro, la fonte apocalittica resta principalmente una rivelazione della fine dei tempi. Ibidem.
[4] Nella gran parte degli episodi, Christe propone di leggere un riferimento generico al Regno divino nella sua realtà atemporale, instaurata da Cristo Risorto, presente e insieme futura: CHRISTE 1974; CHRISTE 1979.
[5] E. Corsini, Apocalisse prima e dopo, Torino 1980; CORSINI 2002.
[6] Y. Christe, Traditions littéraires et iconographiques dans l'interprétation des images apocalyptiques, in L’Apocalypse de Jean. Traditions exégétiques et iconographiques. III- XIII siècles, actes du Colloque de la Fondation Hardt (29 février-3 mars 1976), Genève 1979, pp. 130-131. Anche J. Engemann ha tenuto a sottolineare come Giustino, Ireneo, Tertulliano, Eusebio e Agostino avessero utilizzato spesso l’immagine dell’Agnello condotto al sacrificio per concretizzare il concetto del Primus Adventus di Cristo: v. J. Engemann, Images parousiaques dans l’art paléochrétien, in L’Apocalypse de Jean. Traditions exégétiques et iconographiques. III- XIII siècles, actes du Colloque de la Fondation Hardt (29 février-3 mars 1976), Genève 1979, pp. 73-97.
[7] Come Christe sottolinea, che si tratti della Resurrezione del Cristo o della sua Seconda Parusia poco importa: si è comunque di fronte alla rappresentazione di una realtà durevole e atemporale, che si è instaurata in occasione di un’epifania trionfante. Nella quasi totale assenza di precise annotazioni iconografiche in senso parusiaco ed escatologico, è lecito mantenere delle riserve sull’interpretazione uniformemente deutero-parusiaca dell’arte paleocristiana e medievale di materia strettamente apocalittica. Infatti né il formulario iconografico utilizzato, né la coeva interpretazione esegetica dei testi referenziali autorizzano questo tipo di lettura. CHRISTE 1979, pp. 109-133.
[8] Formatosi alla scuola di Ireneo, di Ippolito e di Origine, Vittorino di Pettau (o di Poetovio) fu convinto sostenitore del millenarismo asiatico. Il suo commento all’Apocalisse venne ripreso, un secolo più tardi, da Girolamo, il quale ne corresse la lingua e ne ridimensionò le impronte millenariste. Ibidem.
[9] Y. Christe, Les représentations médiévales d'Ap. IV-V, la vision du seconde parousie, origines, textes et contexte, «Cahiers archéologiques», 30, 1972, pp. 61-72.
[10] Anche per Beda, Ambrogio Autperto, Alcuino, Beatus, Berangaud e Haimon D’Auxerre (VIII-X secolo) la lettura ermeneutica di Ap 4,5 rimane essenzialmente non parusiaca. Per i commentatori e gli autori di tituli carolingi, invece, la visione di Ap 4 costituisce un’evocazione, un’anticipazione della seconda parusia: ibidem.
[11] Per Beatus, la visione di Ap 4 corrisponde essenzialmente alla gloria del Verbo intronizzato, mentre quella di Ap 5 al vero e proprio atto di intronizzazione: ibidem.
[12] A testimoniarlo concorrono i tituli di Alcuino per la decorazione absidale della chiesa di Gorze (765), quelli di Floro di Lione per l’abside della chiesa di Saint-Jean de Lyon e, ancora, le epigrafi di Rabano Mauro per la chiesa di Saint-Pierre presso Fulda (938), unanimi nel ritenere la visione di Dio fondata su Matteo 19, 24, 25 e su Ap 4,5 prossima a quella della fine dei tempi: ibidem.
[13] La tematica per la prima volta è documentata dal tetrastico finale della Dittochæon di Prudenzio, che fa riferimento a un presunto ciclo decorativo di una non meglio precisata basilica romana di V secolo. Nell’Urbe ad essere illustrati sono soprattutto i passi di Ap 4,5, addizionati a elementi ‘ricapitolativi’ riferibili ad Ap 1, 12, ad Ap 7,9 o ad Ap 14, 1. Per l’analisi morfologico-linguistica dei massimi testi ‘apocalittici’ connotativi della ‘politica delle immagini’ della Chiesa di Roma nei secoli IV-IX, si rimanda ai contributi di S. Casartelli Novelli, I programmi decorativi degli edifici di culto, in La comunità cristiana di Roma. La sua vita e la sua cultura dalle origine all’Alto Medioevo, a cura di L. P. Ermini e P. Siniscalco, Città del Vaticano 2000, 269-326; S. Casartelli Novelli, A. Ballardini, Aula Dei claris radiat speciosa metallis. I manifesti absidali della Chiesa di Roma mater ecclesia catholica, ispirati “unicamente” all’immaginario dell’Apocalisse di Giovanni (IV-IX sec.), in Medioevo: immagini e ideologie, V Convegno Internazionale di studi (Parma, 23-27 settembre 2002), Milano 2005, pp. 145-164.
[14] CHRISTE 2000, pp. 107-112; CHRISTE 2006, p. 278. Già verso la metà del VI secolo, i due Commentari di Primasio e Cesario di Arles sono inclini a privilegiare l’interpretazione ‘presente’ delle immagini esemplate su Ap 4,5.
[15] CHRISTE 1972, pp. 71-72.