Cultura che Appaga. Art, Archaeology, Entertainment, Music, Literature
giovedì 14 febbraio 2013
giovedì 17 gennaio 2013
ALLA SCOPERTA DELLE CATACOMBE DI PRISCILLA
Le catacombe di Priscilla, site lungo la via Salaria (vedi sito web), si
articolano in diversi ambienti:
- Il Cubicolo
della Velata;
- Il Cubicolo
dell’Annunciazione;
- La zona dell’arenario;
- Il Cubicolo
dei Bottai, dalla pianta quadrangolare e dal piccolo ingresso voltato a botte;
- La Cappella
greca.
Le gallerie sono scavate nel tufo, tenera roccia vulcanica utilizzata per la
costruzione di mattoni e calce, e si estendono per circa 13 km . di lunghezza, in vari
livelli di profondità.
ORGANIZZAZIONE GRAFICO–GEOMETRICA E TEMI ICONOGRAFICI DEL
CUBICOLO DELLA VELATA
L’ambiente prende il nome dalla pittura della lunetta di
fondo, raffigurante una giovane donna, con un ricco vestito liturgico e un velo
sul capo, con le braccia alzate in atteggiamento di orante. Ai lati della donna
orante sono rappresentati due episodi della sua vita. Al centro della volta è
dipinto il Buon Pastore nel giardino paradisiaco, tra pavoni e colombe,
preceduto, nel sottarco d’ingresso, dalla scena della fuoruscita del profeta
Giona dalla bocca del pistrice. Nella lunetta di sinistra del cubicolo è
raffigurato il Sacrificio di Isacco e in quella destra i Tre giovani ebrei nella
fornace di Babilonia.
Il cubicolo della Velatio deve la sua denominazione al Wilpert
che, originariamente ed erroneamente, interpretò la scena di Velatio nuptialis della defunta come una
Velatio Virginis, la solenne
consacrazione di una Vergine al Cristo. L’organizzazione grafico-geometrica
della volta comprende un clipeo centrale all’interno di un clipeo più grande,
con delle lunette e dei pennacchi ellissoidali. Vi predominano linee
rosso-verdi, le quali costituiscono l’estrema sintesi della pittura pompeiana .
Le geometrie concentriche richiamate dalle linee alludono a un sistema cosmico,
laddove il cosmo è la sede dell’anima e dell’aldilà. Per completare e
ridefinire l’intelaiatura geometrica, gli artisti inventarono dei segmenti
simili a tiranti di una tenda, che assieme agli altri costituiscono un
casellario semanticamente consapevole. Elementi zoomorfi e fitomorfi popolano
lo spazio: uccelli, quaglie, pavoni e figure umane sono reduplicati
simmetricamente al fine di creare un simbolismo cosmico. La scelta della
simmetria e della specularità delle figure non è casuale. Dal Physiologus, testo antico che riportava
le abitudini degli animali, è tratta l’immagine del pavone, il cui carattere
dipende dal contrappunto tra la bellezza fisica che da sempre gli si
attribuisce e il suono gracchiante della sua voce. Il pavone è l’uccello del paradiso,
mentre i volatili in volo alludono al mezzocielo. Ancora, le quaglie sono
uccelli terrestri. Nel cubicolo della Velata pertanto si stabilisce una scala
cosmica, ove la quaglia cede il passo agli uccelli, posti su di un gradino
inferiore rispetto al pavone.
All’interno del clipeo centrale figura un personaggio, la
mano aperta nella presentazione di se stesso, vestito con tunica esomide ed exigua, tipica del lavoro, con fasce
crurales, che lo identificano come bracciante o pastore: siamo di fronte al
cosiddetto “villico”. Egli è circondato da due ovini, da volatili e
alberi, sempre reduplicati simmetricamente.
È chiara la volontà del committente di voler affermare un concetto, come
l’intento simbolico sotteso a queste immagini, che diventano uno strumento di
trasmissione e di comunicazione. Quale che fosse il vero obiettivo del
committente, appare piuttosto convincente l’ipotesi che attribuisce al villico
l’immagine del buon pastore dell’omonima parabola: il Cristo o ancora prima la
personificazione dell’humanitas,
dell’uomo buono. Dal punto di vista squisitamente iconografico, il buon pastore
è il pastore crioforo, quell’ hermes
psicopompo dell’arte greca e romana da poco pensato in chiave cristiana. Il
buon pastore ha un attributo salvifico, tale da ricondurlo alla
personificazione della Filantropia:
egli è motore e attrattore del cosmo, quell'universo che, nel cubicolo della
Velata, sovrasta un altro complesso decorativo di altrettanta rilevanza
simbolica.
Il ciclo di Giona
costituisce uno dei temi più rappresentati a partire dall’età tardo antica. In
primo luogo, perché egli è l’unico profeta al quale Cristo paragona se stesso,
e in secondo luogo perché il suo ciclo, ricco di aneddoti “ai limiti della
fantascienza”, piacque molto ai fedeli ed ebbe enorme fortuna. Poiché
prefigurazione veterotestamentaria di Cristo, Giona trova spazio negli ambienti
catacombali, nei sarcofagi e negli esempi di arte minore.
L’episodio dei tre giovani ebrei sottoposti al vivicomburium risulta molto diffuso in
ambito catacombale come prefigurazione delle numerosi persecuzioni che, soprattutto a partire dalla metà del III secolo, colpirono i cristiani a opera degli imperatori Decio,
Valeriano e Diocleziano. I giovinetti indossano il berretto frigio e gli anaxyrides, l’atteggiamento è orante.
Essi cantano le lodi al Signore, ringraziano per il miracolo avvenuto,
realizzando in questo modo una sorta di prolessi disegnativa, che sintetizza un
evento passato e uno cronologicamente successivo in una sola immagine. Nella
prima pittura cristiana esiste una certa reticenza nel rappresentare la figura
dell’angelo, sostituita in questo caso dalla colomba noetica. L’angelo può
apparire aptero o con ali, secondo i contesti in cui è rappresentato. Da un
punto di vista esclusivamente stilistico, gli storici dell’arte parlano in
questo caso di una pittura di macchia, quasi “impressionista”, determinata
dalla giustapposizione di diversi colori.
Quanto al Sacrificio
di Isacco, si devono rilevare alcune varianti iconografiche rispetto ai modelli
precedenti e coevi: nella sinagoga di Dura Europos, infatti, Isacco è posto
sull’altare, mentre in Priscilla Abramo prepara il sacrificio.
La lunetta di fondo è stata completamente restaurata. La
defunta, velata, ha gli occhi levati verso l’alto. La tensione orante è
suggerita dalle sue braccia, divaricate e rivolte in alto. Ella indossa una
veste talare rossa, vuota, inconsistente. Le fattezze del volto rimandano a
quei ritratti di età gallienica, pneumatici o spirituali, di divina ispirazione,
conservati a Palazzo Massimo (Roma). Nelle catacombe di Priscilla sono
raffigurati tre fotogrammi della vita della defunta. Il solenne vestiario,
l’atteggiamento, lo sguardo, suggeriscono che ella è già inserita in una
dimensione ultraterrena. La donna allarga le Tabule nuptiales (carte matrimoniali); al suo fianco è un anziano cucullato (incappucciato) che si
occupa della liturgia del matrimonio. Infine, compare la donna- madre col
bambino, dall’acconciatura a helmfrisur (a elmo), altro dettaglio che riconduce alla “pacifica” età
gallienica. La defunta, dunque, è individuata nelle sue molteplici
caratteristiche di madre, sposa e assunta in cielo. Tale individuazione
costituisce il suo curriculum vitae,
dal forte retaggio romano/italico desunto dall’iconografia del quotidiano.
CUBICOLO DELL’ANNUNCIAZIONE
Nel cubicolo è rappresentata una donna seduta in
cattedra e un personaggio che compie il gesto della parola (o del commiato, nel
caso in cui si tratti di un defunto). In passato, due scuole di pensiero si
sono affermate circa l’interpretazione di questa immagine, letta da molti
studiosi come l’Annunciazione a Maria.
La scuola di Bonn, insieme con quella francese, ritiene si tratti di una
scena pagana legata alla vita della defunta, mentre la scuola “romana” di Wilpert,
sulla scorta del Bosio, pur sostenendo il carattere cristiano dell’iconografia
in questione, esclude si tratti dell’Annunciazione.
Tale ipotesi sarebbe suffragata dall’assenza delle ali nel presunto angelo.
Tuttavia, recenti studi hanno dimostrato come gli angeli fossero stati rappresentati apteri anche in altri esempi pittorici
catacombali (Ss. Marcellino e Pietro; ipogeo di via Dino
Compagni). Dopo il restauro, inoltre, Barbara Mazzei
è ritornata a sostenere l’ipotesi dell’Annunciazione.
Da una foto precedente l’ultimo restauro si evince come la figura femminile non
presenti il capo velato, ma abbia un’acconciatura a stuoia, particolarmente
diffusa nell’arco temporale compreso fra l’età gallienica e quella tetrarchica.
Nel soffitto di una nicchia si trova lo stucco,
sfortunatamente in gran parte caduto, del Buon Pastore tra arbusti,
anche essi in stucco ma che finiscono in una vivace pittura di fronde e rossi frutti. Alla estremità del soffitto compaiono due scene:
completamente caduta quella di sinistra, a destra si conserva una figura femminile, con ogni probabilità la Virgo Lactans con il Bambino sulle ginocchia, affiancata da un altro personaggio, verosimilmente un profeta, che con la mano sinistra tiene un rotolo e con la destra addita una stella. Potrebbe trattarsi
della profezia di Balaam: “una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da
Israele” (Num. 24,15-17). La pittura, in base allo stile, è datata al 230-240 d.C..
L’umidità e l’escursione termica causate dall’afflusso
dei visitatori hanno fortemente danneggiato gli affreschi, recentemente
sottoposti a restauri.
Siamo di fronte a un banchetto animato da una gestualità vivacissima, da una
liturgia gestuale solenne. Le figure, variamente individuate, sono disposte
lungo una tavola sigmoide. Quale tipo di banchetto è rappresentato? Siamo di
fronte a un banchetto refrigerativo?
Neotestamentario? Edonistico?
Tale scena di banchetto ha una valenza particolare sia
per la sua ubicazione, poiché si situa nello zenit della cappella, sia per i
molteplici significati ad essa attribuibili. Innanzitutto, si deve ricordare
che la Cappella Greca si apre sul criptoportico, un’area alla quale si poteva
accedere mediante due vie di accesso, e che per lungo tempo è stata considerata
parte della villa di famiglia. Recentemente questa ipotesi è divenuta meno
convincente, mentre gli studiosi sono portati a ritenere che in origine l’area
fosse deputata al contenimento di cisterne idrauliche. Il criptoportico, inoltre, ospitava alcuni
sarcofagi marmorei. In un nicchione di questo ambiente fu aperta la Cappella
Greca, la cui denominazione è legata alle iscrizioni in greco che ancora oggi
sono visibili.
Ai lati della scena centrale compaiono due ceste di pani,
alle quali in genere è attribuito un significato eucaristico. Del resto, il
banchetto funebre in onore del defunto è ricordato da numerose fonti pagane e
cristiane, da monumenti pagani e dalla letteratura omerica. Essi potevano
tenersi subito dopo la morte del defunto e all’aperto, oppure in giorni successivi al decesso. Allo scopo di sottolineare il concetto della continuità
della vita dopo la morte, questi banchetti funebri, già presenti nella
ritualità romana, potevano essere celebrati al momento della sepoltura (Silicernium) oppure, come si è
accennato, nove giorni più tardi la stessa (Novendiale);
essi potevano avere cadenza annuale (come i Parentalia),
e tra questi un convivio solenne celebrato il 22 febbraio, detto Cara Cognatio, si svolgeva presso il
sepolcro con i soli parenti del defunto e rappresentava l’occasione di
assicurare la stabilità e l’unità della famiglia. La pratica del pasto funebre
si configura dunque come un modo per assicurare le relazioni sociali e per
riappacificare le famiglie. Nel cristianesimo, i banchetti diventano Refrigeria (rinfresco), indicando con
questo termine il rinfresco tenuto per sollevare l’anima del defunto verso
l’aldilà. Nella decorazione, la presenza del pesce e del pane, oltre a
suggerirci che questi cibi erano facilmente reperibili grazie al fiorente
mercato ittico e annonario di Roma, immediatamente rinvia al mistero
eucaristico. A questo proposito, il Wilpert introduceva la possibilità che
l’affresco si ispirasse alla liturgia della Fractio
Panis. In ragione di quanto detto finora, dunque, non è escluso che il
dipinto di Priscilla avesse anche un significato eucaristico.
La Cappella Greca è un “monumento altro” rispetto al
resto delle testimonianze coeve. Oltre alle pitture, la sua decorazione
comprende rilievi in stucco dipinto, liberamente ispirati ai racemi d’acanto
dell’Ara Pacis, di ambientazione
dionisiaca e probabilmente di alta committenza. I temi iconografici che popolano le pareti, l’assenza di loculi e la
particolare sontuosità della decorazione, non fanno ritenere la Cappella un ambiente
esclusivamente funerario. Sembra, piuttosto, che essa fosse un luogo di
riunione, forse di catechesi. Sulle pareti della cappella compaiono i seguenti
temi iconografici:
-
I tre giovani fanciulli alla
fornace, l’idolo
di Nabucodonosor e Daniele;
-
Mosè intento a battere la rupe;
-
La
personificazione dell’Estate (caratterizzata
da papaveri e fiordalisi) inserita entro un clipeo;
-
Susanna e i vecchioni e Susanna
orante;
-
L’Adorazione dei magi, episodio che fa parte del ciclo
cristologico e non del ciclo mariano, giacché quest’ultimo prende avvio dal
431, ovvero a partire dal Concilio di Efeso.
-
La
fenice sul rogo ardente. Secondo
Erodoto, la fenice era un uccello mitico, e il suo mito solare era ambientato a Heliopolis. La Fenice poteva
vivere dai 500 ai 1000 anni, trascorsi i quali moriva per autocombustione.
Proprio per queste sue particolari caratteristiche, essa divenne simbolo
di palingenesi e, in seguito, con l’avvento del cristianesimo, simbolo della
resurrezione del Cristo.
-
La
Resurrezione del paralitico.
I numerosi ed eterogenei temi iconografici presenti nella
Cappella Greca suggeriscono un ricco alfabetario visivo, nel quale la fenice funge
da chiave di volta. Susanna è qui protagonista di due diverse scene: in una
scena è insidiata dai vecchioni, nell’altra è orante. Il maestro, meglio ancora
il committente, vuole raccontarci una storia utilizzando due fotogrammi; ci
racconta che Susanna, in un primo momento venne molestata dai vecchioni e che,
successivamente, fu prosciolta da ogni accusa grazie all’intervento divino.
L’atto di impositio manuum è a questo
proposito eloquente. Esso può significare un atto di accusa, come in questo
caso, oppure di purificazione, di catechesi o di guarigione. Del resto, in
ambito catacombale ricerca della narrazione molto spesso equivale a perseguimento
di finalità didattico-educative. Quanto allo stile
delle pitture, nei tre giovani alla fornace e nel più armonico idolo che li
sovrasta sono riconoscibili differenti mani.
Nella calotta di
destra figurano delle iscrizioni in greco e l’episodio di Daniele fra i leoni con la città di Babilonia sullo sfondo,
particolare inusuale in questo contesto, che lascia ritenere l’esistenza di un
modello miniato alle spalle.
Venendo al criptoportico, l’ambiente era decorato con
linearità rosso-verdi, sull’esempio dell’ipogeo degli Aureli datato al 230 d.C.
ca. Il restauro del 1992 ha
messo in evidenza la scala di accesso all’arenario, la quale si collegava alla
Madonna di Priscilla. Nei gradoni creati per la costruzione della scala, un
sarcofago con scene pastorali, espressione di quel sincretismo religioso
ampiamente diffuso in età tardo antica, venne alla luce e fu oggetto di studio.
Esso mostra vari pastori variamente atteggiati e inseriti all’interno di un locus amoenus. I pastori svolgono
attività ludiche con cani e ovini. Ai lati del sarcofago sono rappresentate
delle ceste ricolme di frutta. Il sarcofago era già pronto prima di essere
utilizzato, come possono dimostrare un ampio ventaglio di prodotti di età tardo antica, il volto
sbozzato, non finito, del defunto e il pallio enfiato, utile per rappresentare
sia le donne sia gli uomini. I fori denunciano un forte uso
dei trapani: quello a cinghia venne usato anche nella Lastra di Urbino
appartenente a Eutropos. Altri elementi sono lavorati con gli scalpelli a punta
fina e piatta. In origine, il sarcofago poteva essere policromo. L’occhio
levato e l’atteggiamento dei pastori a metà fra il corrucciato e il patetico
datano il sarcofago all’età gallienica.
IL CUBICOLO DEI BOTTAI
Più tardo rispetto agli altri, il
cubicolo si data al pieno IV secolo, più precisamente al 320-330, in piena epoca
costantiniana. A dimostrarlo uno stile pittorico semplice e un’architettura che
fa intuire i grandi risvolti del IV secolo. Nell’emicalotta è un pavone sul
globo e nell’arcosolio di fondo è situata la scena che ha poi denominato il
cubicolo, nella quale otto personaggi trasportano una botte. Vestiti con una
tunica exigua clavata le figure, dai
volti deturpati a causa della loro damnatio
memoriae che sarebbe avvenuta nel XVII secolo, sono munite di bastoni. Come
dimostra la mancata caratterizzazione dei personaggi ritratti nella scena, il
cubicolo apparteneva probabilmente a una corporazione, uno dei tanti collegia funeraticia del tempo. Questo
collegio desiderò rappresentare nel proprio sepolcro una scena che
rappresentasse il mestiere cui essi erano deputati in vita. Che si tratti di
trasportatori di botti (o vinari), di fabbricatori di botti o ancora di distributori
di prodotti, poco importa; interessanti, invece, sono i riferimenti "realistici" della pittura. Sui quarti della volta sono rappresentate scene
della vita di Giona e di Noè, caratterizzato dalla consueta colomba.
Bibliografia principale:
V. Fiocchi Nicolai, F. Bisconti, D.
Mazzoleni, Le catacombe cristiane di Roma,
Regensburg 1998.
mercoledì 9 gennaio 2013
Roma cristiana: le catacombe di Commodilla
Le catacombe di Commodilla sono site in Roma, precisamente in via delle Sette Chiese, non molto lontano dalla via
Ostiense (vedi MAPPA). Esse sono anche conosciute con
il nome dei Ss. Felice e Adautto. Queste due antiche denominazioni, che
risultano sia nell’Index coemeteriorum del VI secolo, sia nel Martirologio
geronimiano di V secolo, si devono principalmente a due motivazioni:
Commodilla era la proprietaria del fundus donato alla comunità
cristiana per instaurarvi la catacomba, mentre Felice e Adautto erano i martiri
eponimi venerati nella catacomba. Nella Depositio martyrum, della
metà del IV secolo, invece, le due diciture scompaiono, per poi ritornare negli
Itinerari di VII secolo (il De locis, la Notitia
ecclesiarum e il Malmesburiense).
La prima scoperta degli ambienti avvenne
sul finire del Cinquecento, per merito del Bosio, che pensò di trovarsi nella
catacomba di Lucina. Oggi, grazie alle campagne di fine Ottocento dello
Stevenson, per cimitero di Lucina si intende l’area subdiale alla basilica di
San Paolo f. l. m. che comprendeva il cimitero in cui era stato deposto san
Paolo.
La volta della Basilichetta, che fu
riscoperta solo nel Novecento, è di restauro. Luogo di venerazione dei martiri
Felice e Adautto dal momento della sua costruzione, l’ambiente assunse la
conformazione attuale solo nel VI secolo, a seguito degli interventi promossi
da papa Giovanni I (523-526). Prima di allora, lo spazio era delimitato da una
galleria con sepolture terragne, mentre il pavimento, ora rialzato, era in
origine piano. La prima galleria non andava oltre il confine delle sepolture ed
era accessibile dalla metà circa dell’odierno ambiente. Sviluppata
parallelamente alla basilica, essa era dotata di un piccolo braccio,
delimitando l’antico ingresso dell’ambiente.
A Commodilla non vi è nulla che rimandi a un’epoca precostantiniana. Come in Priscilla, dove si riscontrano larghe
gallerie dotate di volte abbassate e dalla sezione a ferro di cavallo, la
catacomba era originariamente una cava di arenario. L’ambiente era inizialmente
adibito a un uso sepolcrale privato e fungeva pertanto da vero e proprio
Ipogeo, che, sfruttando le antiche gallerie di pozzolana, fu in seguito
predisposto alla venerazione dei Ss. Felice e Adautto, probabilmente per
volontà della stessa Commodilla. Nella prima metà del IV secolo, la situazione
rimase pressoché invariata, giacché, a differenza di altri cimiteri coevi, non
vi fu un’esplosione di sepolture. L’Ipogeo privato passò alla comunità
cristiana con papa Damaso (366-384). A questo proposito, da un frammento di epigrafe
ritrovato in situ - il cui testo è tradito da una silloge
medievale – si evince come Damaso abbia dato nuovo risalto alle tombe dei due
martiri. Il testo ricorda che egli ristrutturò una singola tomba. È probabile,
dunque, che i due martiri, periti fra le persecuzioni di Valeriano e di
Diocleziano, fossero stati sepolti nella parete di fondo dell’attuale
basilichetta, verosimilmente sulla sinistra venendo dallo scalone di accesso,
dove sono stati ritrovati due loculi sovrapposti, uno aperto e l’altro chiuso.
Le Passiones, alle quali si fa riferimento per la
ricostruzione del loro martirio, sono documenti tardi e pertanto meno
attendibili dei carmi e delle testimonianze epigrafiche fatte apporre in
catacomba nella seconda metà del IV secolo dai papi Damaso e Siricio (384-99).
A Damaso si deve la prima sistemazione consistente delle pareti,
originariamente decorate ad affresco, che prevedeva, al posto dell’attuale
calotta absidale, una parete piana con un’epigrafe e probabilmente una
transenna. La sistemazione è analoga a quella che il noto pontefice aveva
prospettato in molti cimiteri di Roma. Resti di pittura di età damasiana
mostrano due personaggi acclamanti un cristogramma. Al centro è un contenitore
di rotuli (volumina), perfettamente in linea con una serie di
decorazioni contemporanee che esaltano la verità, la legge, e la dottrina di
Cristo. Dopo Damaso, la scoperta delle tombe dei martiri e la venerazione fomentata dallo
stesso papa verso Felice e Adautto fecero in modo che la catacomba prendesse
realmente avvio come luogo di culto. Ciò comportò la costruzione di nuclei più
consistenti di sepolture. Commodilla divenne così un vero e proprio retro
sanctos, un luogo in cui, per la vicinanza ai martiri venerati, i
fedeli desideravano essere deposti. A questo scopo, nella seconda metà del IV
secolo, nacque la galleria di cui prima si accennava.
La topografia delle catacombe evolse molto
fra III e IV secolo. A Commodilla, la galleria, al fine di sfruttare
intensivamente lo spazio, non lascia alle famiglie dei defunti la possibilità
di personalizzare la tomba del proprio morto, come dimostra il tipo di
sepoltura a loculo che la caratterizza. Ritrovata dagli archeologi pressoché
intatta e illesa dalle depauperazioni dei corpisantari, questa galleria è utile
per stabilire una cronologia attendibile. A partire dalla fase di Giovanni I,
per tutto il Medioevo e l’epoca moderna, infatti, essa rimase chiusa e quasi
del tutto intatta. In alcuni punti, nella malta di fissaggio dei loculi furono
apposti dei piccoli oggetti: dei vetri o dei materiali luminescenti, destinati
non tanto al riconoscimento della tomba, ma più presumibilmente al suo
abbellimento. La Regione di Leone, luogo in cui si trova il
cubicolo dell’ufficialis annonae che impose il nome alla regione, fu
scoperta negli anni 50. Il cubicolo di Leone è di natura privata, sebbene
faccia parte della catacomba stessa.
Si continuò a seppellire in Commodilla
fino ai primi decenni del V secolo; in seguito la catacomba cadde in disuso e
si preferì seppellire sub divo. Essa divenne piuttosto un punto di
riferimento per i pellegrinaggi. L’intervento promosso da Giovanni I comportò
l’allargamento della parete, la creazione di due calotte absidali e una
conformazione dell’ambiente che oggi si può intuire come una basilica
semipogea.
Le passiones di V-VI secolo narrano il martirio di Felice e Adautto, due presbiteri fratelli. Felice sarebbe stato martirizzato in prossimità di una cavità sulla quale sorgeva un albero; Adautto è l’appellativo attribuito al fratello di Felice - il cui reale nome è sconosciuto - che deriva dal latino adauctus, aggiunto, al martirio. Secondo le fonti, dopo il supplizio i due corpi furono deposti nella cavità formatasi in seguito allo sprofondamento dell’albero stesso, cavità che dovrebbe corrispondere alla memoria di un luogo semipogeo: la basilichetta creata da Giovanni I. Nell’occasione della sua costruzione si rialzò il presbiterio e si chiuse la "galleria intatta", mentre continuò l’opera di abbellimento dell’ambiente. La sistemazione damasiana fu smantellata. Nel catino di sinistra, l’epigrafe voluta da Damaso fu posta a coprire gli affreschi e il mosaico preesistenti. Quanto all’altra calotta, alcuni studiosi tedeschi provarono a ricostruirne la decorazione, nella quale si scorge a malapena un personaggio in trono, Cristo, mentre tracce di colore indicano l’esistenza di un altro personaggio posto alla sua destra, e di un tronco di palma. Questa decorazione doveva mettere in risalto la ragione del martirio. In occasione dei lavori di Giovanni I venne edificato uno scalone monumentale (quello che si percorre per accedere alla basilichetta), verosimilmente un passaggio creato ad hoc per meglio convogliare le masse di pellegrini.
Le passiones di V-VI secolo narrano il martirio di Felice e Adautto, due presbiteri fratelli. Felice sarebbe stato martirizzato in prossimità di una cavità sulla quale sorgeva un albero; Adautto è l’appellativo attribuito al fratello di Felice - il cui reale nome è sconosciuto - che deriva dal latino adauctus, aggiunto, al martirio. Secondo le fonti, dopo il supplizio i due corpi furono deposti nella cavità formatasi in seguito allo sprofondamento dell’albero stesso, cavità che dovrebbe corrispondere alla memoria di un luogo semipogeo: la basilichetta creata da Giovanni I. Nell’occasione della sua costruzione si rialzò il presbiterio e si chiuse la "galleria intatta", mentre continuò l’opera di abbellimento dell’ambiente. La sistemazione damasiana fu smantellata. Nel catino di sinistra, l’epigrafe voluta da Damaso fu posta a coprire gli affreschi e il mosaico preesistenti. Quanto all’altra calotta, alcuni studiosi tedeschi provarono a ricostruirne la decorazione, nella quale si scorge a malapena un personaggio in trono, Cristo, mentre tracce di colore indicano l’esistenza di un altro personaggio posto alla sua destra, e di un tronco di palma. Questa decorazione doveva mettere in risalto la ragione del martirio. In occasione dei lavori di Giovanni I venne edificato uno scalone monumentale (quello che si percorre per accedere alla basilichetta), verosimilmente un passaggio creato ad hoc per meglio convogliare le masse di pellegrini.
Nel VI secolo la basilica era l’unico
ambiente frequentato nella catacomba e lo scalone doveva consentirne un
accesso agevole. In origine l’ingresso era posto sopra la calotta. Dalla prima
galleria, una scala parallela molto ripida dava accesso a un altro passaggio
laterale scavato nella pozzolana. La frequentazione dell’ambiente si
intensificò nel corso del VII secolo. Numerosi pellegrini vi affluirono da
tutta Europa, come dimostrano alcuni graffiti devozionali in alfabeto latino e
runico rintracciati sulla parete di fondo, collocabili fra il VII e il IX
secolo. La venerazione del sepolcro dei due martiri continuò fino all’epoca di
Leone IV, quando le loro reliquie furono trasferite altrove. In seguito, il
luogo, nato in virtù dei martiri, decadde fino a quando il Bosio, sul finire
del Cinquecento, ne rintracciò gli ambienti.
L’affresco di Turtura
L’iscrizione dipinta sotto l’affresco ne
inquadra il soggetto. Il suo cattivo stato di conservazione è dovuto a un
tentativo di distacco per mano dei tombaroli. Nonostante, durante il restauro,
i frammenti dell’affresco di Turtura fossero stati pazientemente ricomposti, il
suo stile ne risultò pesantemente alterato, come dimostrano alcune foto
precedenti all’intervento e le fotografie acquerellate del Wilpert. Questi ultimi, in
particolare, mostrano come prima i personaggi fossero resi con maggiore
delicatezza e come l’attuale fattura del volto di Turtura non renda giustizia
alla vedova. La Vergine è seduta su un trono gemmato e ha in braccio il
Bambino. Ai lati figurano Felice e Adautto, che introducono la defunta Turtura.
Per questa pittura si pone un notevole problema di cronologia, giacché la critica tedesca – autore del corpus su Commodilla – spinge per una
datazione al VII secolo, mentre oggi una sua collocazione entro la metà del VI
secolo appare più convincente in ragione di un’epigrafe pavimentale ritrovata in
situ. L’iscrizione pavimentale è datata al 527-28 e ricorda la bontà e la
castità di Turtura che, dopo la morte del marito, si era esclusivamente
dedicata alla cura dei figli. La dicitura dell’epigrafe viene associata alla
narrazione fatta all’interno dell’epigrafe affrescata. Dal punto di vista dello
stile, questi affreschi sono molto distanti dalla maggior parte delle
testimonianze pittoriche di VI secolo. Frontalità e inconsistenza dei volumi
determinano un procedimento di iconizzazione, per certi aspetti lontano dalla
tradizione naturalistica romana. Si tratta di una pittura poco nota a Roma, i
cui canoni sono così ripetitivi da essere iconograficamente poco inquadrabili
e, allo stesso tempo, distanti dalle limitrofe pitture del cubicolo di Leone,
sempre in Commodilla. La fissità dei personaggi introduce in una dimensione
avulsa da quella umana, contermine, per linguaggio, ai mosaici di Ravenna.
L’affresco con san Luca
Pur appartenendo a una fase pittorica
differente, l’affresco si lega da un punto di vista stilistico a quello di
Turtura. È probabile che il committente abbia scelto di riprodurre l’immagine
di san Luca per una contiguità topografica con la basilica di San Paolo f. l.
m., dove era attestato il culto del santo discepolo di Paolo. Egli è
rappresentato con una borsa e con gli strumenti del medico, sua professione.
Caratteristiche stilistiche di VI secolo, come la frontalità, il grande nimbo
coronato da due cornici - una chiara e l’altra scura - i curati tratti del
volto, conducono a una datazione dell’affresco al tempo di Costantino Pogonato (VII secolo).
L’affresco con la Traditio Clavium
Il Cristo sul globo è imberbe, porta i
capelli lunghi e ha un volto dai connotati fisiognomici diffusi a decorrere
dal V secolo in poi, soprattutto a Ravenna. Ai suoi lati sono Pietro e Paolo.
Si tratta di una scena di Traditio clavium. L’affresco è datato al
VII secolo. I moduli espressivi paleocristiani subiscono variazioni ma
rimangono qui ancora evidenti. I nimbi presentano cornici concentriche e
l’abito di Cristo ha una connotazione violacea tipicamente apocalittica. Il
Codice nelle mani del Cristo è chiuso e gemmato, e richiama l’Apocalisse.
Pietro e Paolo presentano dei rotuli. Intorno al nucleo centrale, compaiono i santi Felice e Adaùtto, Stefano e
Merita o Emerita, entrambi oranti. Le fonti ricordano una santa Merita
seppellita presso i martiri Felice e Adautto, sebbene gli scavi non abbiano poi
confermato questa informazione. La presenza di santo Stefano si deve alla vicinanza
topografica con la basilica di San Paolo, dove esisteva un oratorio a lui
dedicato. È probabile che prima di questa decorazione ne esistesse un’altra,
oggi perduta.
L’affresco con Merita o Emerita orante
Si tratta di un altro affresco di VII
secolo, probabilmente realizzato dallo stesso pittore della Traditio
clavium, come si evince dal trattamento dei volti e della linea suolo.
L’epigrafe segnala il nome del personaggio centrale: è Merita, santa associata
alle sepolture dei due martiri eponimi rappresentati ai lati.
La Regione di Leone
Il Cubicolo di Leone è parte integrante
della catacomba, anche se costituisce un nucleo privato. Leone era un Ufficialis
annonae, l’ente che si occupava dell’approvvigionamento di viveri per la
città. Nel cubicolo si apprezza un’autorappresentazione minima del defunto,
mentre la maggior parte della decorazione è affidata a un tema cristiano. La
volta con il busto di Cristo e il tema dell’esaltazione di Pietro spiccano sul
resto della decorazione. La sua datazione è ascritta all’ultimo trentennio del
IV secolo (370-385). L’ingresso del cubicolo presenta una decorazione con l’Agnello
centrale e 12 colombe laterali, una zoomorfizzazione di Cristo fra gli
apostoli. Il Busto di Cristo, dal volto apocalittico, attorniato
dalle lettere alfa e omega, è inserito in un cassettonato, dove vi fu
sovrapposto in un secondo momento. Nel cubicolo predominano temi cristologici.
Sul fondo un Cristo giovanile sorregge un codice aperto – a
indicare la Rivelazione - ed è circondato dai ss. Felice e Adautto.
Sulle pareti laterali un'immagine con due santi poco
caratterizzati acclamanti un cristogramma e la capsa di rotuli al
centro richiamano la decorazione damasiana; più avanti ancora si nota
una zoomorfizzazione del miracolo della moltiplicazione dei pani,
con il Cristo agnello. Un altro frammento di pittura mostra l’Agnello
centrale – Cristo fra due ovini laterali. Sul lato sinistro della
parete di fondo è rappresentata una santa Agnese orante con l’attributo
dell’agnello. Sulla destra della parete di fondo, invece, compaiono degli
episodi particolari: il Raptus Pauli - il momento in
cui Paolo viene portato al terzo cielo - che si sviluppa come una vera e
propria visione teofanica, nella quale il Cristo si affaccia da una sorta di
balaustra (II Corinzi, 12, 2); e l’episodio, forse tratto dagli atti degli
apostoli, dell’eunuco di Camdace convertito, altrimenti
interpretato come una scena di ultimo viaggio, tema pagano che ben
si attaglierebbe al sepolcro di un funzionario dell’annona. A destra e a
sinistra si svolge il tema petrino, con il Miracolo del battesimo di
Processo e Martiniano - che riprende lo schema di Mosè che percuote
rupe – in cui i Carcerieri sono connotati come militari dai berretti pannonici,
e con la scena del Ter negabis, nella quale Pietro rinnega
Cristo. Le due scene petrine si riferiscono alla salvezza portata da Cristo e
dal nuovo testamento, del quale protagonista è Pietro che, pur peccando, redime
se stesso e l’umanità.
Bibliografia principale:
V. Fiocchi Nicolai, F. Bisconti, D. Mazzoleni, Le catacombe cristiane di Roma,
Regensburg 1998.
sabato 5 gennaio 2013
Roma medievale: l'Oratorio mariano di Santa Pudenziana
Evidenziate
dai restauri del 1928-30, le testimonianze delle trasformazioni operate in
epoca romanica sulla basilica di Santa Pudenziana a Roma consistono negli
affreschi dell’oratorio, nella struttura interna della chiesa, nel campanile e
nei rilievi del portale. Alle spalle dell’abside si trova l’oratorio mariano,
decorato ad affresco. Sulla parete di fondo la Vergine con il Bambino è
affiancata da santa Pudenziana e da santa Prassede, contraddistinte dalla
corona del martirio; sulla sinistra, nel registro superiore, è la Conversione e
il Battesimo dei figli di Pudente a opera di san Paolo, in quello inferiore il
Battesimo delle sante e l’ordinazione di Novato. Sulla parete opposta è un angelo
che incorona i santi Cecilia, Valeriano e Tiburzio. Lo spazio della volta, diviso in cinque campi
da cornici decorative, accoglie l’Agnus
Dei circondato dai Viventi, accompagnati da iscrizioni. Caratteristiche di
questa decorazione apocalittica sono, da un lato, la rappresentazione del
Tetramorfo sulle quattro vele e, dall’altro, la presenza di iscrizioni
identificative, disposte sotto i singoli simboli degli Evangelisti secondo un
andamento curvilineo che segue la concavità della superficie. Le lettere sono
bianche su fondo verde, mentre la scrittura è in capitale. I testi sono in
versi leonini (san Marco; san Luca) e in esametri (san Giovanni e san Matteo).
L’iscrizione Vox clamantis ais qua Marce
leone notaris in corrispondenza del leone di Marco appare frammentaria. In
prossimità dell’evangelista Giovanni si legge oggi Alta nimis scandit facies aquilina Ioh(ann)is, sebbene sui
disegni di Cassiano del Pozzo sia riportato il verso Arcanis scandit facies aquilina Ioh(ann)is. Anche l’epigrafe dipinta Frons
hominis pandit chr(ist)i com(m)mercia carnis in corrispondenza di Matteo è molto lacunosa; mentre
quella che si riferisce a san Luca, Luca
boantis species (sor)te mutat arantis,
non è più visibile[1].
I tituli dovevano indicare le singole
caratteristiche dei quattro redattori, teorizzate da Girolamo, riprese dal Carmen Paschale di Sedulio, da Gregorio
Magno e da letterati e teologi di epoca carolingia e confluite, alla fine del
XIII secolo, nello Speculum di
Vincenzo di Beauvais. Secondo la lettura di Morey l’iscrizione Arcanis scandit facies aquilina Ioh(ann)is
si presenterebbe, nel significato, contigua ai versi Scribendo penitras caelum tu mente, Johannes del Codex Aureus di Sant’Emmerano.
L’epigrafe esegetica disposta sotto il simbolo di san Marco Vox Clamantis ais qua marce Leone Notaris ben si attaglierebbe al titulus More boat Marcus frendentis voce leonis, sempre tratto e
rielaborato dallo stesso codice e ai versi Marcus ut alta fremit vox per deserta leonis del Carmen Paschale di Sedulio[2].
Oggi
i simboli di Marco, di Matteo e di Giovanni si presentano mutili e in cattivo
stato di conservazione[3]. La loro
ubicazione sulla volta trova confronti nelle antiche raffigurazioni di Santa
Matrona in San Prisco a Santa Maria Capua Vetere e del Mausoleo di Galla
Placidia a Ravenna (prima metà del V secolo), dove gli Animali compaiono
assieme al trono etimatico o, nel caso ravennate, alla croce del Risorto, qui
sostituita dall’Agnus Dei al centro
della composizione[4].
Secondo l’assetto riscontrato a S. Pudenziana, il Tetramorfo compare nella
decorazione della Cappella Arcivescovile di Ravenna (fine V secolo),
segnatamente sulle vele della volta a crociera scandite da quattro angeli
delineati lungo la linea ascensionale delle costolonature. L’immagine
dell’Agnello nel clipeo centrale, connessa con i simboli Evangelici delle
lunette, faceva parte anche del perduto programma decorativo del sacello di San
Giovanni Battista al Laterano (V secolo), che propone un’iconografia attestata,
qualche secolo dopo, anche nell’area presbiteriale di San Vitale e diffusa
soprattutto nell’Oriente Cristiano[5].
La
datazione delle pitture oscilla tra il pontificato di Gregorio VII (1073-1085)
e il primo quarto del XII secolo. L’assenza di notizie sicure non aiuta a
definirne una precisa cronologia che, di conseguenza, è strettamente correlata
alla loro analisi stilistica[6].
MAPPA
[1] Le integrazioni delle
iscrizioni sono state possibili grazie al disegno acquerellato di Eclissi, alla
lettura del Morey (1915) e al contributo di Wilpert (1916): C. R. Morey, Lost mosaics and frescoes of Rome of the
mediaeval period: a publication of drawings contained in the collection of
Cassiano dal Pozzo, now in the Royal Library, Windsor Castle, Princeton
University Press 1915; S. Riccioni, Iscrizioni,
in CROISIER 2006, pp. 199-206. Vedi anche A. Trivellone, Il cosiddetto oratorio mariano della chiesa di S. Pudenziana e i suoi
affreschi: nuove considerazioni, in ROMA E LA RIFORMA GREGORIANA 2007,
pp. 305-330.
[2] Cfr. MOREY 1915, p. 47;
Sedulio, Carmen Paschale, v. I, p.
355: CSEL X, p. 42. Sul finire del XII secolo, concetti di questo tipo
permearono il pensiero di Adamo di San Vittore (1172-1192), cui si deve l’elaborazione
dei seguenti versi: Marcus, leo per
desertum/ Clamans, rugit in apertum / Iter fiat Deo certum / Mundum cor a
crimine./ Sed loannes, ala bina / Caritatis, aquilina / Forma fertur in divina
/ Puriori lumine.
[3] J. Croisier, La decorazione pittorica dell’oratorio
mariano di Santa Pudenziana, in CORPUS IV 2006, pp. 199-206.
[4] UTRO 2000c, pp. 286-287.
[5]
Cfr. PENNESI 2006, pp. 428-432; G.
Bovini, Ravenna. Mosaici e monumenti, Ravenna 2003, pp. 123-129.
[6]
A proposito dello stile, sono stati messi in evidenza alcuni punti di contatto
con i dipinti murali dei sotterranei del Sancta
Sanctorum, con quelli della basilica di Sant’Anastasio a Castel Sant’Elia
(Nepi), della Pieve di Vallerano e della Grotta degli Angeli a Magliano Romano:
PARLATO-ROMANO 2001, pp. 171-178, 322-323; CROISIER 2006, pp. 199-206. A
giudizio di Matthiae, la presenza di alcune precise soluzioni formali rende le
pitture il precedente immediato per gli affreschi della chiesa inferiore di S.
Clemente: MATTHIAE 1966 [1988], pp. 21-24. Per Demus, esse vanno collocate al
primo quarto del XII secolo: O. Demus, Romanische
Wandmalerei, München 1968, pp. 57,121. Gandolfo,
invece, ne ha proposto una datazione alta, ritenendo i dipinti inseriti in una
diversa corrente pittorica, da legare alla cultura dei maestri attivi nella
chiesa sotterranea di San Crisogono. Cfr. F. Gandolfo, Aggiornamento scientifico, in MATTHIAE 1966 [1988], p. 254;
PARLATO-ROMANO 2001, pp. 124-126.
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