sabato 22 dicembre 2012

Roma, Pinacoteca Vaticana, Tavola del Giudizio Universale da San Gregorio Nazianzieno, 1061-1071





Il dipinto è strutturato in cinque registri e bordato da una fascia rossa e da una banda esterna ornata da motivi decorativi a fogliette gigliate. I registri, separati da fasce, comprendono, in alto, una composizione centralizzata. All’interno del primo scomparto è il Cristo assiso sul globo cosmico, munito di croce astile e della sfera terracquea, affiancato da due serafini a sei ali (Ez 10,12) sulle ruote di fuoco (Ez 1, 15-20; 10, 9-12) e da due angeli.
Nella fascia sottostante, dietro un altare con gli Strumenti della Passione (la croce dorata, il libro, la lancia, i chiodi, la spugna, la coppa e la corona di spine) il Cristo orante è affiancato ai lati da due arcangeli in tunica rossa e loros dorato e dagli apostoli assisi in stalli gemmati con suppedaneum. Al di sotto corre la prima di quattro iscrizioni. Sul globo del Cristo appare «Ecce vici mundum» (Gv 16,33), mentre sui cartigli degli arcangeli compaiono le citazioni da Matteo 25, 34 e 41.
Nel terzo registro figurano i santi Innocenti (in questo caso, a differenza di San Paolo f.l.m. e di Anagni, abbigliati con vesti colorate) muniti di un libro sul quale si legge un passo tratto da Ap 6, 9-11. Al centro è santo Stefano, vestito da diacono, con la palma del martirio. A sinistra, alle spalle della Vergine, rivolta verso il Cristo nel gesto della Deesis, è il buon ladrone e, prima ancora, la figura di san Paolo. Quest’ultimo regge un cartiglio con la citazione della prima lettera ai Corinzi 15, 52 ed è posto a capo di una turba di chierici e laici. Dall’altra parte, invece, articolate in tre scene, sono le Opere di Misericordia (Mt 25, 31-46). Lo sfondo delle Opere comprende architetture classicheggianti e bizantineggianti, caratterizzate da elementi timpanati, portici architravati ed esedre.
Al di sotto corre ancora una lunga iscrizione, che guida alla lettura dell’immagine e fa riferimento al Giudizio. Nel quarto registro si assiste alla Resurrezione dei morti, i cui corpi appaiono rigettati dagli animali della terra e dell’acqua, affiancati dalle relative personificazioni della Tellus e dell’Oceanus. A destra due angeli suonano le trombe mentre, in sepolcri marmorei, appaiono piccole figure fasciate. Tra questo registro e il sottostante è di nuovo un’iscrizione, a descrivere le scene.
Nell’ultimo registro, in basso a sinistra, è una raffigurazione della Gerusalemme celeste, al cui interno è la Vergine orante affiancata da due sante, forse Prassede e Pudenziana. Alle loro spalle sono due figure femminili, poste a capo di una schiera di personaggi maschili. Più in basso, al di fuori della città, sono raffigurate le due donatrici, identificate con le iscrizioni Benedicta e Costantia abatissa. A destra si volge una scena infernale, con episodi punitivi. L’ultima banda conserva un’iscrizione che promette il Paradiso ai giusti.

Secondo Redig de Campos la tavola del Giudizio, inizialmente ricondotta al monastero femminile dei Ss. Stefano e Cesareo nei pressi di S. Paolo fuori le mura di Roma, doveva essere datata tra il 1040 e il 1080 circa (REDIG DE CAMPOS 1935; GARRISON 1984, pp. 153-192). Non era dello stesso avviso Wilhelm Paeseler secondo cui la rielaborazione iconografica del consueto trono con l’Etimasia (trono vuoto con le insegne di Cristo) del secondo registro - con il Cristo insieme ‘sacerdote’ e ‘agnello sacrificale’ - era intimamente connessa con il Dogma della Transustanziazione formulato dal Quarto Concilio Lateranense (1215) e promulgato dai Decretali di Gregorio IX (1234). Il dipinto, pertanto, andava spostato alla metà del Duecento. Se Salmi e Demus ricondussero la pittura ai primi decenni del XII secolo, Volbach e Matthiae la datarono agli ultimi anni del XII, inizi XIII secolo. Nel 1967 Peri la collocò in un arco cronologico compreso fra il 1061 e il 1071. Lo studioso, peraltro, verificò la sua provenienza dal convento di Santa Maria in Campo Marzio e precisamente dall’altare della chiesa di S. Gregorio Nazianzeno, ponendo in discussione la tesi del ‘Cristo Sacerdote-agnello sacrificale’ sostenuta da Paeseler (SALMI 1943, p. 290-293; DEMUS 1968, p. 119; VOLBACH 1940, pp. 41-54; MATTHIAE 1966, pp. 153-155; GARRISON 1984, pp. 153-192; PERI 1966-67). Per Edward Garrison, il Giudizio Vaticano andava agganciato alla seconda metà del XII secolo e, segnatamente, a quel revival di motivi paleocristiani che, da Pasquale II, sviluppò una vera e propria rinascita dei modelli antichi, anche per opera dei benedettini di Montecassino e di Cluny. La tavola fu confrontata con gli affreschi di San Niccolò in Carcere, con le scene del Tabernacolo di Tivoli, con gli affreschi del sottotetto di S. Croce in Gerusalemme, con le pitture di San Giovanni a Porta Latina e con alcuni manoscritti prodotti da Gregorio da Catino (Farfa). Le iscrizioni del pannello vaticano, affini ai tituli di San Giovanni a Porta Latina e della cripta di Anagni, erano, per lo studioso, frutto della cultura figurativa di XIII secolo. In altri studi il dipinto è stato variamente agganciato alla seconda metà del XII secolo (GANDOLFO 1988, PARLATO-ROMANO 2001), al primo XIII secolo (DE FRANCOVICH 1952; IACOBINI 1991) e, più recentemente, al termine dell’XI, inizi XII secolo, cronologia alta riproposta da Suckale nel 2002 (SUCKALE 2002). Alla luce delle recenti osservazioni sulla natura della comunità religiosa di Campio Marzio, Serena Romano e Felipe Dos Santos hanno considerato una sua datazione al terzo quarto dell’XI secolo, confermando l’identificazione della Constantia abatissa con la vedova Constantia, fautrice, nel 1030, di una donazione al convento. I due studiosi inoltre lo hanno posto in relazione con le icone di Palazzo Barberini e del Salvatore benedicente e, sulla base delle tracce di grappe sul retro della tavola, ne hanno proposto la sistemazione su una parete o su un altro supporto, probabilmente sotto le arcate della navata o nell’abside (ROMANO – DOS SANTOS 2006, pp. 49-53).
Negli anni Ottanta del Novecento Garrison considerò alcuni esempi di pittura monumentale iconograficamente contigui alla tavola vaticana: dagli affreschi di San Giovanni a Porta Latina alla decorazione della cappella dei Ss. Quattro Coronati; dalle pitture di Santa Cecilia in Trastevere del Cavallini agli affreschi di Santa Maria in Vescovio e, ancora, alla decorazione di Santa Maria Donna Regina a Napoli. A questo elenco lo studioso aggiunse la rappresentazione apocalittica della Cripta di Anagni, datata al 1237-1255. Tra gli esempi annoverati, Paeseler e Garrison si dedicarono, in particolare, al Giudizio conservato sulla controfacciata della chiesa di S. Giovanni a Porta Latina, considerato una perfetta ‘reductio’ del pannello vaticano (PAESELER 1938; GARRISON 1984, pp. 153-192).
Quanto ai modelli, è possibile che il dipinto abbia avuto un prototipo di tipo monumentale, ancora sconosciuto. La citazione di Panvinio « Frons basilicae intus totae picturis antiquis et parum elegantibus ornata est, Christi scilicet Servatoris novissimo die humanum genus indicantis » (BAV, Vat. Lat. 6781, f. 315) potrebbe riferirsi a un perduto Giudizio sulla controfacciata di San Giovanni in Laterano, verosimilmente successivo alla tavola vaticana. Qui, la divisione in registri trova un confronto in esempi precedenti: dall’avorio del Victoria and Albert Museum, al Giudizio di St. George alla Reichenau, a quello di Torcello, per proseguire con i codici del Beatus, alla Bibbia di Farfa, fino alla controfacciata di S. Angelo in Formis. Il Cristo sul globo del primo registro ha alle spalle una radicata tradizione iconografica, di derivazione imperiale e costantiniana (SUCKALE 2002, p. 40), romana ma anche ravennate. In particolare, il dipinto condivide con l’immagine del Cristo sul globo dell’abside di San Vitale a Ravenna il contesto eucaristico, enfatizzato dalla rappresentazione dell’altare con gli strumenti della Passione, forse di origine bizantina. Del resto, già Paeseler (1938) aveva in esso riscontrato la presenza di motivi romani, orientali e transalpini (PAESELER 1938; ROMANO – DOS SANTOS 2006, pp. 50-53), confermata da Garrison e da Suckale recentemente ripresa (SUCKALE 2002, p. 84). Un mondo che, per dirla con Dos Santos e Romano, « era venuto a contatto con l’Italia, con Roma e con Montecassino per il tramite delle personalità impegnate nelle prime fasi della Riforma, e per gli oggetti nordici che giungevano ad esempio a Montecassino durante i governi degli abati anteriori a Desiderio » (ROMANO – DOS SANTOS 2006, p. 53).

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