Le catacombe di Commodilla sono site in Roma, precisamente in via delle Sette Chiese, non molto lontano dalla via
Ostiense (vedi MAPPA). Esse sono anche conosciute con
il nome dei Ss. Felice e Adautto. Queste due antiche denominazioni, che
risultano sia nell’Index coemeteriorum del VI secolo, sia nel Martirologio
geronimiano di V secolo, si devono principalmente a due motivazioni:
Commodilla era la proprietaria del fundus donato alla comunità
cristiana per instaurarvi la catacomba, mentre Felice e Adautto erano i martiri
eponimi venerati nella catacomba. Nella Depositio martyrum, della
metà del IV secolo, invece, le due diciture scompaiono, per poi ritornare negli
Itinerari di VII secolo (il De locis, la Notitia
ecclesiarum e il Malmesburiense).
La prima scoperta degli ambienti avvenne
sul finire del Cinquecento, per merito del Bosio, che pensò di trovarsi nella
catacomba di Lucina. Oggi, grazie alle campagne di fine Ottocento dello
Stevenson, per cimitero di Lucina si intende l’area subdiale alla basilica di
San Paolo f. l. m. che comprendeva il cimitero in cui era stato deposto san
Paolo.
La volta della Basilichetta, che fu
riscoperta solo nel Novecento, è di restauro. Luogo di venerazione dei martiri
Felice e Adautto dal momento della sua costruzione, l’ambiente assunse la
conformazione attuale solo nel VI secolo, a seguito degli interventi promossi
da papa Giovanni I (523-526). Prima di allora, lo spazio era delimitato da una
galleria con sepolture terragne, mentre il pavimento, ora rialzato, era in
origine piano. La prima galleria non andava oltre il confine delle sepolture ed
era accessibile dalla metà circa dell’odierno ambiente. Sviluppata
parallelamente alla basilica, essa era dotata di un piccolo braccio,
delimitando l’antico ingresso dell’ambiente.
A Commodilla non vi è nulla che rimandi a un’epoca precostantiniana. Come in Priscilla, dove si riscontrano larghe
gallerie dotate di volte abbassate e dalla sezione a ferro di cavallo, la
catacomba era originariamente una cava di arenario. L’ambiente era inizialmente
adibito a un uso sepolcrale privato e fungeva pertanto da vero e proprio
Ipogeo, che, sfruttando le antiche gallerie di pozzolana, fu in seguito
predisposto alla venerazione dei Ss. Felice e Adautto, probabilmente per
volontà della stessa Commodilla. Nella prima metà del IV secolo, la situazione
rimase pressoché invariata, giacché, a differenza di altri cimiteri coevi, non
vi fu un’esplosione di sepolture. L’Ipogeo privato passò alla comunità
cristiana con papa Damaso (366-384). A questo proposito, da un frammento di epigrafe
ritrovato in situ - il cui testo è tradito da una silloge
medievale – si evince come Damaso abbia dato nuovo risalto alle tombe dei due
martiri. Il testo ricorda che egli ristrutturò una singola tomba. È probabile,
dunque, che i due martiri, periti fra le persecuzioni di Valeriano e di
Diocleziano, fossero stati sepolti nella parete di fondo dell’attuale
basilichetta, verosimilmente sulla sinistra venendo dallo scalone di accesso,
dove sono stati ritrovati due loculi sovrapposti, uno aperto e l’altro chiuso.
Le Passiones, alle quali si fa riferimento per la
ricostruzione del loro martirio, sono documenti tardi e pertanto meno
attendibili dei carmi e delle testimonianze epigrafiche fatte apporre in
catacomba nella seconda metà del IV secolo dai papi Damaso e Siricio (384-99).
A Damaso si deve la prima sistemazione consistente delle pareti,
originariamente decorate ad affresco, che prevedeva, al posto dell’attuale
calotta absidale, una parete piana con un’epigrafe e probabilmente una
transenna. La sistemazione è analoga a quella che il noto pontefice aveva
prospettato in molti cimiteri di Roma. Resti di pittura di età damasiana
mostrano due personaggi acclamanti un cristogramma. Al centro è un contenitore
di rotuli (volumina), perfettamente in linea con una serie di
decorazioni contemporanee che esaltano la verità, la legge, e la dottrina di
Cristo. Dopo Damaso, la scoperta delle tombe dei martiri e la venerazione fomentata dallo
stesso papa verso Felice e Adautto fecero in modo che la catacomba prendesse
realmente avvio come luogo di culto. Ciò comportò la costruzione di nuclei più
consistenti di sepolture. Commodilla divenne così un vero e proprio retro
sanctos, un luogo in cui, per la vicinanza ai martiri venerati, i
fedeli desideravano essere deposti. A questo scopo, nella seconda metà del IV
secolo, nacque la galleria di cui prima si accennava.
La topografia delle catacombe evolse molto
fra III e IV secolo. A Commodilla, la galleria, al fine di sfruttare
intensivamente lo spazio, non lascia alle famiglie dei defunti la possibilità
di personalizzare la tomba del proprio morto, come dimostra il tipo di
sepoltura a loculo che la caratterizza. Ritrovata dagli archeologi pressoché
intatta e illesa dalle depauperazioni dei corpisantari, questa galleria è utile
per stabilire una cronologia attendibile. A partire dalla fase di Giovanni I,
per tutto il Medioevo e l’epoca moderna, infatti, essa rimase chiusa e quasi
del tutto intatta. In alcuni punti, nella malta di fissaggio dei loculi furono
apposti dei piccoli oggetti: dei vetri o dei materiali luminescenti, destinati
non tanto al riconoscimento della tomba, ma più presumibilmente al suo
abbellimento. La Regione di Leone, luogo in cui si trova il
cubicolo dell’ufficialis annonae che impose il nome alla regione, fu
scoperta negli anni 50. Il cubicolo di Leone è di natura privata, sebbene
faccia parte della catacomba stessa.
Si continuò a seppellire in Commodilla
fino ai primi decenni del V secolo; in seguito la catacomba cadde in disuso e
si preferì seppellire sub divo. Essa divenne piuttosto un punto di
riferimento per i pellegrinaggi. L’intervento promosso da Giovanni I comportò
l’allargamento della parete, la creazione di due calotte absidali e una
conformazione dell’ambiente che oggi si può intuire come una basilica
semipogea.
Le passiones di V-VI secolo narrano il martirio di Felice e Adautto, due presbiteri fratelli. Felice sarebbe stato martirizzato in prossimità di una cavità sulla quale sorgeva un albero; Adautto è l’appellativo attribuito al fratello di Felice - il cui reale nome è sconosciuto - che deriva dal latino adauctus, aggiunto, al martirio. Secondo le fonti, dopo il supplizio i due corpi furono deposti nella cavità formatasi in seguito allo sprofondamento dell’albero stesso, cavità che dovrebbe corrispondere alla memoria di un luogo semipogeo: la basilichetta creata da Giovanni I. Nell’occasione della sua costruzione si rialzò il presbiterio e si chiuse la "galleria intatta", mentre continuò l’opera di abbellimento dell’ambiente. La sistemazione damasiana fu smantellata. Nel catino di sinistra, l’epigrafe voluta da Damaso fu posta a coprire gli affreschi e il mosaico preesistenti. Quanto all’altra calotta, alcuni studiosi tedeschi provarono a ricostruirne la decorazione, nella quale si scorge a malapena un personaggio in trono, Cristo, mentre tracce di colore indicano l’esistenza di un altro personaggio posto alla sua destra, e di un tronco di palma. Questa decorazione doveva mettere in risalto la ragione del martirio. In occasione dei lavori di Giovanni I venne edificato uno scalone monumentale (quello che si percorre per accedere alla basilichetta), verosimilmente un passaggio creato ad hoc per meglio convogliare le masse di pellegrini.
Le passiones di V-VI secolo narrano il martirio di Felice e Adautto, due presbiteri fratelli. Felice sarebbe stato martirizzato in prossimità di una cavità sulla quale sorgeva un albero; Adautto è l’appellativo attribuito al fratello di Felice - il cui reale nome è sconosciuto - che deriva dal latino adauctus, aggiunto, al martirio. Secondo le fonti, dopo il supplizio i due corpi furono deposti nella cavità formatasi in seguito allo sprofondamento dell’albero stesso, cavità che dovrebbe corrispondere alla memoria di un luogo semipogeo: la basilichetta creata da Giovanni I. Nell’occasione della sua costruzione si rialzò il presbiterio e si chiuse la "galleria intatta", mentre continuò l’opera di abbellimento dell’ambiente. La sistemazione damasiana fu smantellata. Nel catino di sinistra, l’epigrafe voluta da Damaso fu posta a coprire gli affreschi e il mosaico preesistenti. Quanto all’altra calotta, alcuni studiosi tedeschi provarono a ricostruirne la decorazione, nella quale si scorge a malapena un personaggio in trono, Cristo, mentre tracce di colore indicano l’esistenza di un altro personaggio posto alla sua destra, e di un tronco di palma. Questa decorazione doveva mettere in risalto la ragione del martirio. In occasione dei lavori di Giovanni I venne edificato uno scalone monumentale (quello che si percorre per accedere alla basilichetta), verosimilmente un passaggio creato ad hoc per meglio convogliare le masse di pellegrini.
Nel VI secolo la basilica era l’unico
ambiente frequentato nella catacomba e lo scalone doveva consentirne un
accesso agevole. In origine l’ingresso era posto sopra la calotta. Dalla prima
galleria, una scala parallela molto ripida dava accesso a un altro passaggio
laterale scavato nella pozzolana. La frequentazione dell’ambiente si
intensificò nel corso del VII secolo. Numerosi pellegrini vi affluirono da
tutta Europa, come dimostrano alcuni graffiti devozionali in alfabeto latino e
runico rintracciati sulla parete di fondo, collocabili fra il VII e il IX
secolo. La venerazione del sepolcro dei due martiri continuò fino all’epoca di
Leone IV, quando le loro reliquie furono trasferite altrove. In seguito, il
luogo, nato in virtù dei martiri, decadde fino a quando il Bosio, sul finire
del Cinquecento, ne rintracciò gli ambienti.
L’affresco di Turtura
L’iscrizione dipinta sotto l’affresco ne
inquadra il soggetto. Il suo cattivo stato di conservazione è dovuto a un
tentativo di distacco per mano dei tombaroli. Nonostante, durante il restauro,
i frammenti dell’affresco di Turtura fossero stati pazientemente ricomposti, il
suo stile ne risultò pesantemente alterato, come dimostrano alcune foto
precedenti all’intervento e le fotografie acquerellate del Wilpert. Questi ultimi, in
particolare, mostrano come prima i personaggi fossero resi con maggiore
delicatezza e come l’attuale fattura del volto di Turtura non renda giustizia
alla vedova. La Vergine è seduta su un trono gemmato e ha in braccio il
Bambino. Ai lati figurano Felice e Adautto, che introducono la defunta Turtura.
Per questa pittura si pone un notevole problema di cronologia, giacché la critica tedesca – autore del corpus su Commodilla – spinge per una
datazione al VII secolo, mentre oggi una sua collocazione entro la metà del VI
secolo appare più convincente in ragione di un’epigrafe pavimentale ritrovata in
situ. L’iscrizione pavimentale è datata al 527-28 e ricorda la bontà e la
castità di Turtura che, dopo la morte del marito, si era esclusivamente
dedicata alla cura dei figli. La dicitura dell’epigrafe viene associata alla
narrazione fatta all’interno dell’epigrafe affrescata. Dal punto di vista dello
stile, questi affreschi sono molto distanti dalla maggior parte delle
testimonianze pittoriche di VI secolo. Frontalità e inconsistenza dei volumi
determinano un procedimento di iconizzazione, per certi aspetti lontano dalla
tradizione naturalistica romana. Si tratta di una pittura poco nota a Roma, i
cui canoni sono così ripetitivi da essere iconograficamente poco inquadrabili
e, allo stesso tempo, distanti dalle limitrofe pitture del cubicolo di Leone,
sempre in Commodilla. La fissità dei personaggi introduce in una dimensione
avulsa da quella umana, contermine, per linguaggio, ai mosaici di Ravenna.
L’affresco con san Luca
Pur appartenendo a una fase pittorica
differente, l’affresco si lega da un punto di vista stilistico a quello di
Turtura. È probabile che il committente abbia scelto di riprodurre l’immagine
di san Luca per una contiguità topografica con la basilica di San Paolo f. l.
m., dove era attestato il culto del santo discepolo di Paolo. Egli è
rappresentato con una borsa e con gli strumenti del medico, sua professione.
Caratteristiche stilistiche di VI secolo, come la frontalità, il grande nimbo
coronato da due cornici - una chiara e l’altra scura - i curati tratti del
volto, conducono a una datazione dell’affresco al tempo di Costantino Pogonato (VII secolo).
L’affresco con la Traditio Clavium
Il Cristo sul globo è imberbe, porta i
capelli lunghi e ha un volto dai connotati fisiognomici diffusi a decorrere
dal V secolo in poi, soprattutto a Ravenna. Ai suoi lati sono Pietro e Paolo.
Si tratta di una scena di Traditio clavium. L’affresco è datato al
VII secolo. I moduli espressivi paleocristiani subiscono variazioni ma
rimangono qui ancora evidenti. I nimbi presentano cornici concentriche e
l’abito di Cristo ha una connotazione violacea tipicamente apocalittica. Il
Codice nelle mani del Cristo è chiuso e gemmato, e richiama l’Apocalisse.
Pietro e Paolo presentano dei rotuli. Intorno al nucleo centrale, compaiono i santi Felice e Adaùtto, Stefano e
Merita o Emerita, entrambi oranti. Le fonti ricordano una santa Merita
seppellita presso i martiri Felice e Adautto, sebbene gli scavi non abbiano poi
confermato questa informazione. La presenza di santo Stefano si deve alla vicinanza
topografica con la basilica di San Paolo, dove esisteva un oratorio a lui
dedicato. È probabile che prima di questa decorazione ne esistesse un’altra,
oggi perduta.
L’affresco con Merita o Emerita orante
Si tratta di un altro affresco di VII
secolo, probabilmente realizzato dallo stesso pittore della Traditio
clavium, come si evince dal trattamento dei volti e della linea suolo.
L’epigrafe segnala il nome del personaggio centrale: è Merita, santa associata
alle sepolture dei due martiri eponimi rappresentati ai lati.
La Regione di Leone
Il Cubicolo di Leone è parte integrante
della catacomba, anche se costituisce un nucleo privato. Leone era un Ufficialis
annonae, l’ente che si occupava dell’approvvigionamento di viveri per la
città. Nel cubicolo si apprezza un’autorappresentazione minima del defunto,
mentre la maggior parte della decorazione è affidata a un tema cristiano. La
volta con il busto di Cristo e il tema dell’esaltazione di Pietro spiccano sul
resto della decorazione. La sua datazione è ascritta all’ultimo trentennio del
IV secolo (370-385). L’ingresso del cubicolo presenta una decorazione con l’Agnello
centrale e 12 colombe laterali, una zoomorfizzazione di Cristo fra gli
apostoli. Il Busto di Cristo, dal volto apocalittico, attorniato
dalle lettere alfa e omega, è inserito in un cassettonato, dove vi fu
sovrapposto in un secondo momento. Nel cubicolo predominano temi cristologici.
Sul fondo un Cristo giovanile sorregge un codice aperto – a
indicare la Rivelazione - ed è circondato dai ss. Felice e Adautto.
Sulle pareti laterali un'immagine con due santi poco
caratterizzati acclamanti un cristogramma e la capsa di rotuli al
centro richiamano la decorazione damasiana; più avanti ancora si nota
una zoomorfizzazione del miracolo della moltiplicazione dei pani,
con il Cristo agnello. Un altro frammento di pittura mostra l’Agnello
centrale – Cristo fra due ovini laterali. Sul lato sinistro della
parete di fondo è rappresentata una santa Agnese orante con l’attributo
dell’agnello. Sulla destra della parete di fondo, invece, compaiono degli
episodi particolari: il Raptus Pauli - il momento in
cui Paolo viene portato al terzo cielo - che si sviluppa come una vera e
propria visione teofanica, nella quale il Cristo si affaccia da una sorta di
balaustra (II Corinzi, 12, 2); e l’episodio, forse tratto dagli atti degli
apostoli, dell’eunuco di Camdace convertito, altrimenti
interpretato come una scena di ultimo viaggio, tema pagano che ben
si attaglierebbe al sepolcro di un funzionario dell’annona. A destra e a
sinistra si svolge il tema petrino, con il Miracolo del battesimo di
Processo e Martiniano - che riprende lo schema di Mosè che percuote
rupe – in cui i Carcerieri sono connotati come militari dai berretti pannonici,
e con la scena del Ter negabis, nella quale Pietro rinnega
Cristo. Le due scene petrine si riferiscono alla salvezza portata da Cristo e
dal nuovo testamento, del quale protagonista è Pietro che, pur peccando, redime
se stesso e l’umanità.
Bibliografia principale:
V. Fiocchi Nicolai, F. Bisconti, D. Mazzoleni, Le catacombe cristiane di Roma,
Regensburg 1998.
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