domenica 7 ottobre 2012

Renoir, mio padre


La tavolozza di Renoir era pulita “come una moneta nuova di zecca”. Era una tavolozza quadrata, incastrata sul coperchio di una cassetta della stessa forma. Su un tavolo basso, vicino al cavalletto, c’era un bicchiere pieno di trementina, in cui risciacquava il pennello dopo ogni pennellata, o quasi. Nella cassetta e sul tavolo teneva alcuni pennelli di ricambio, ma non ne usava mai più di due o tre per volta. Quando iniziavano a consumarsi, quando sbavavano sulla tela o quando per qualsiasi motivo non garantivano più l’assoluta precisione della pennellata, li gettava via. Sul tavolo c’era anche qualche straccio pulito, su cui ogni tanto metteva i pennelli ad asciugare. La cassetta e il tavolo erano sempre in perfetto ordine, e i tubetti di colore ben arrotolati dal fondo, in modo che bastava premerli leggermente per ottenere la quantità di colore desiderata. Per pulire la tavolozza la raschiava, poi puliva il raschietto con un pezzo di carta che subito gettava nel fuoco e la sfregava con uno straccio imbevuto di trementina, finché sul legno non rimaneva più nessuna traccia di colore. Infine gettava nel fuoco anche lo straccio. Lavava i pennelli con acqua fredda e sapone, e a volte incaricava me di lavarli, cosa di cui andavo fiero. Col passare degli anni mio padre aveva semplificato sempre di più la tavolozza , […] e ormai i grumi di colore sembravano perdersi sulla superficie del legno, tra gli spazi vuoti. Renoir vi attingeva con parsimonia, con rispetto. Gli sarebbe sembrato di offendere Mullard, che aveva triturato il colore minuziosamente, se ne avesse usato troppo, senza adoperarlo fino all’ultimo [ …]. Non amava le tele fini, perché erano morbidi da dipingere, ma poco resistenti. Questa era la motivazione apparente, ma poi ce n’era un inconscia: la sua ammirazione per il Veronese, Tiziano e Velázquez, che sembrava dipingessero su tele dalla trama piuttosto grossa. De resto le due motivazioni andavano di pari passo, perché mio padre era convinto da un lato che quei grandi maestri volessero cerare opere eterne, dall’altro che i suoi quadri non sarebbero stati capiti prima che fosse passato almeno mezzo secolo. Amava dire: “vorrei poter nascondere le mie tele e chiedere ai miei figli di metterle da parte per molto tempo, prima di esporle al pubblico”. Sperava che le sue opere vivessero tanto a lungo da poter esser giudicate in un momento più favorevole. Quarant’anni dopo la sua morte, possiamo dire che il suo desiderio è stato esaudito.

Jean Renoir
(da J. Renoir, Pierre-Auguste Renoir, mon père, Parigi-Londra 1962).


Pierre-Auguste Renoir, Il Ballo in città, part. , 1883, Parigi, Musée d’Orsay. 

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