Prima del IV secolo
inoltrato un immaginario apertamente apocalittico fatica ad affermarsi. Ed è probabile che a questa sua iniziale scarsa fortuna abbia contribuito il
simbolismo eccessivamente complesso e poco fruibile da parte di una comunità
cristiana estremamente eterogenea[1]. Tra la
fine del IV e gli inizi del V secolo, a proposito del commento sui capitoli 4 e
5 dell’Apocalisse, emersero con vigore due distinte scuole di pensiero. La
prima, facente capo al donatista Ticonio (370-390 circa) e in auge fino al XIII
secolo[2],
ha considerato le immagini apocalittiche quali allegorie del primo avvento di
Cristo e della sua attuale presenza nel tempo della Chiesa. La seconda, seguita
da Girolamo (347-420 circa) e successivamente da Paolino di Nola (355-431) e da
Cassiodoro (485-580 circa)[3], le ha
interpretate come scene della Parusia e ha assegnato loro un significato
escatologico[4].
Ricorrendo a un attento
esame delle fonti letterarie medievali, Corsini ha dimostrato come
l’Apocalisse, nella sua comprensione post-costantiniana, non debba essere più
assimilata in blocco a una visione della fine dei tempi[5]. Nel IV secolo, dopo la pax di Costantino, essa era stata percepita
quale elemento d’ostacolo al pensiero cristiano di riconciliazione della Chiesa
e dello Stato. In ragione delle sue velate invettive contro Roma e il ruolo
dell’imperatore, e soprattutto della sua tensione escatologica, il testo
impediva, in un certo senso, una riappacificazione della Chiesa in seno alla
compagine imperiale. La volontà di Ticonio di eliminare tutti i riferimenti
storici trasferendo l’insieme delle rivelazioni di Patmos sul piano allegorico,
non poteva che essere ben accolta dagli alti vertici della gerarchia
ecclesiastica. In più, il carattere costantemente ecclesiale del suo
allegorismo ben si accordava con le ambizioni di una Chiesa trionfante sempre
più cosciente del proprio ruolo storico. Non a caso, nelle prime manifestazioni
iconografiche, il trono dell’Anonimo assume l’aspetto di un solium regale e i Ventiquattro Saggi –
come si vede sull’arco trionfale di San Paolo f.l.m. (1) – non sono mai
rappresentati seduti (Ap 4,6), bensì ritti in piedi, spesso a testa nuda,
cerimoniosamente allineati nell’atto di presentare al proprio sovrano l’aurum coronarium che si deve al perpetuo
vincitore[6].
L’utilizzo del formulario imperiale e la scelta sistematica di schemi trionfali
e aulici, a esclusione di scene di sottomissione dei vinti, ci parlano dunque
di un’epifania vittoriosa[7].
1.
La letteratura
medievale ha spesso riconosciuto nella grandiosa visione dei capitoli 4 e 5 una
rivelazione della realtà presente, lungi dal confondere Apocalisse e ‘fine dei
tempi’. Sarebbe forse lecito domandarsi se esista, a questo proposito, un
legame tra esegesi e iconografia, tra le riletture di Vittorino di Pettau[8] (304) e
di Ticonio e i programmi pittorici monumentali[9].
I riferimenti ‘iconografici’ e quelli propriamente testuali possono correre,
infatti, su due binari paralleli. Nelle fonti esegetiche vige
un’interpretazione dominante di carattere ecclesiale che, a partire da
Vittorino di Petovio, seguito da Ticonio, Agostino d’Ippona (354-430), Primasio
vescovo di Adrumeto (VI secolo) e Gregorio Magno (540-604 circa), rimane
sostanzialmente invariata nel tempo[10].
Anche per i commentatori medievali di IX-XII secolo, i passi di Ap 4,5 non
illustrano la fine dei tempi, né acquisiscono un carattere deutero-parusiaco o
escatologico, ma alludono piuttosto ai tempi della Chiesa e, segnatamente, al
momento che precede la seconda Resurrezione del Cristo. In questo senso, la
posizione del teologo Ambrogio Autperto, abate di S. Vincenzo al Volturno (781
circa), appare eloquente. Rifacendosi all’esegesi agostiniana, il monaco benedettino
interpreta alcune omissioni di Ap 4,5 come una precisa volontà, da parte
dell’autore, di mantenere nel tempo della prima venuta del Cristo, cioè della
sua prima Resurrezione, la visione soprannaturale dei due capitoli. Più avanti
l’adozionista Beato di Liébana (730-798 circa) assume la stessa posizione,
rifiutando una lettura in senso escatologico dei passi[11].
Diversamente, a partire dal IX secolo le immagini, i tituli o i commenti offerti a proposito delle iconografie
riferibili ad Ap 4,5 o ad altri passaggi (Ap 7; 14) possono incarnare anche un
significato escatologico. Al di là delle Alpi, in epoca carolingia, l’immagine
monumentale della Gloria di Dio ispirata ad Ap 4 è considerata, se non una
visione della seconda Parusia, una divina rivelazione che l’annuncia[12].
Dalla fine dell’VIII secolo, specialmente al di fuori dell’Urbe, si afferma una
nuova interpretazione iconografica e iconologica di Ap 4,5, in contraddizione
con i primi commenti alla fonte neotestamentaria. Se nell’arte paleocristiana
non si conserva alcun esempio di illustrazione da leggere e interpretare in
riferimento alla parusia del Cristo nel Giudizio finale (Ap 21),
successivamente, come si vede sui portali di Saint-Denis (2) o di Saint-Trophime ad
Arles (3), si assiste a una sovrapposizione e a una sinossi di diversi temi
iconografici, improntati sui passi di Mt 19, 28; 24, 29-31, 24, 31-46, di Ap 4,
2-6 e di Ap 21, 11-15, da spiegare in senso parusiaco.
2.
3.
Nel contesto escatologico antiariano occidentale e romano di VI-XII secolo, inoltre, alcune immagini di ispirazione apocalittica, come quella dei due san Giovanni colti nel gesto di indicare l'Agnus Dei o il Cristo, improntata su Ap 11, 3-13 e sulla grandiosa visione di Ap 4-5, vengono spesso utilizzate per significare l’Invisibile, ricondotto al mistero dell’Incarnazione[15]. Così, ad esempio, nelle pitture murali dei Santi Silvestro e
Martino ai Monti (4), di Santa Susanna e del sacello di San Lorenzo fuori le Mura (VIII secolo), o nei mosaici di Santa Marina in Domnica (5) e della basilica superiore di San Clemente (1118 ca.) a Roma.
4.
5.
Pur arricchendosi di numerosi livelli interpretativi, la traduzione
figurata di Ap 4,5 che, fra V e XIII secolo, si sivluppa negli edifici di culto romani rimane comunque aderente ai suoi prototipi paleocristiani e solo in rari casi assume una
connotazione escatologica. A Roma, il tema dell’Adorazione dell’Agnello o dell’Anonimo
trova un exploit solo a partire dal V
secolo, come dimostrano i primi esempi coevi: dalla perduta decorazione della facciata di San
Pietro in Vaticano, tramandata da un disegno dell'Eton College (6) a quella, anche scomparsa ma documentata dalla sua copia
ottocentesca, di San Paolo fuori le Mura[13]. I
Viventi e i Vegliardi attorno all’Anonimo e all’Agnello partecipano, in questo
caso, ai fasti di una liturgia celeste che celebra la Resurrezione e la Maestà
del Cristo. Essi tramutano in immagine quanto teorizzato da Ticonio, la cui
nuova lettura esegetica dell’Apocalisse
risulta diffusa proprio dalla pittura monumentale e miniata di V e VI secolo[14].
6.
[1] BISCONTI 1980b, p. 212.
[2] Alla fine del IV secolo in
materia d’interpretazione dell’Apocalisse si verifica una rivoluzione
esegetica, di cui è responsabile proprio l’africano eretico donatista Ticonio.
La sua opera, purtroppo perduta, è nota tramite Primasio e Cesario d’Arles per
il VI secolo, e Beda, Ambrogio Autperto e Beatus per i secoli successivi. CHRISTE 2006, pp. 275-292.
[3]
Alla visione ticoniana si contrappongono i tituli
della decorazione absidale della chiesa di Fondi, scritti da Paolino di Nola,
il quale sembra considerare il trono vuoto corredato della Croce un’allegoria
del ritorno di Cristo Giudice. Per lui e, più avanti, per Cassiodoro, la fonte
apocalittica resta principalmente una rivelazione della fine dei tempi. Ibidem.
[4]
Nella gran parte degli episodi, Christe propone di leggere un riferimento
generico al Regno divino nella sua realtà atemporale, instaurata da Cristo
Risorto, presente e insieme futura: CHRISTE 1974; CHRISTE 1979.
[5] E. Corsini, Apocalisse prima e dopo, Torino 1980; CORSINI 2002.
[6] Y. Christe, Traditions
littéraires et iconographiques dans l'interprétation des images apocalyptiques,
in L’Apocalypse de Jean. Traditions
exégétiques et iconographiques. III- XIII siècles, actes du Colloque de la
Fondation Hardt (29 février-3 mars 1976), Genève 1979, pp. 130-131. Anche
J. Engemann ha tenuto a sottolineare come Giustino, Ireneo, Tertulliano,
Eusebio e Agostino avessero utilizzato spesso l’immagine dell’Agnello condotto
al sacrificio per concretizzare il concetto del Primus Adventus di Cristo: v. J. Engemann, Images parousiaques dans l’art paléochrétien, in L’Apocalypse de Jean. Traditions
exégétiques et iconographiques. III- XIII siècles, actes du Colloque de la Fondation Hardt (29 février-3
mars 1976), Genève 1979, pp. 73-97.
[7]
Come Christe sottolinea, che si tratti della Resurrezione del Cristo o della
sua Seconda Parusia poco importa: si è comunque di fronte alla rappresentazione
di una realtà durevole e atemporale, che si è instaurata in occasione di
un’epifania trionfante. Nella quasi totale assenza di precise annotazioni
iconografiche in senso parusiaco ed escatologico, è lecito mantenere delle
riserve sull’interpretazione uniformemente deutero-parusiaca dell’arte
paleocristiana e medievale di materia strettamente apocalittica. Infatti né il
formulario iconografico utilizzato, né la coeva interpretazione esegetica dei
testi referenziali autorizzano questo tipo di lettura. CHRISTE 1979, pp.
109-133.
[8]
Formatosi alla scuola di Ireneo, di Ippolito e di Origine, Vittorino di Pettau
(o di Poetovio) fu convinto sostenitore del millenarismo asiatico. Il suo
commento all’Apocalisse venne ripreso, un secolo più tardi, da Girolamo, il
quale ne corresse la lingua e ne ridimensionò le impronte millenariste. Ibidem.
[9] Y. Christe, Les représentations médiévales d'Ap. IV-V, la
vision du seconde parousie, origines, textes et contexte, «Cahiers
archéologiques», 30, 1972, pp. 61-72.
[10] Anche per Beda, Ambrogio
Autperto, Alcuino, Beatus, Berangaud e Haimon D’Auxerre (VIII-X secolo) la
lettura ermeneutica di Ap 4,5 rimane essenzialmente non parusiaca. Per i
commentatori e gli autori di tituli carolingi,
invece, la visione di Ap 4 costituisce un’evocazione, un’anticipazione della
seconda parusia: ibidem.
[11] Per Beatus, la visione di Ap 4
corrisponde essenzialmente alla gloria del Verbo intronizzato, mentre quella di
Ap 5 al vero e proprio atto di intronizzazione: ibidem.
[12] A testimoniarlo concorrono i tituli di Alcuino per la decorazione
absidale della chiesa di Gorze (765), quelli di Floro di Lione per l’abside
della chiesa di Saint-Jean de Lyon e, ancora, le epigrafi di Rabano Mauro per
la chiesa di Saint-Pierre presso Fulda (938), unanimi nel ritenere la visione
di Dio fondata su Matteo 19, 24, 25 e su Ap 4,5 prossima a quella della fine
dei tempi: ibidem.
[13]
La tematica per la prima volta è documentata dal tetrastico finale della Dittochæon di Prudenzio, che fa
riferimento a un presunto ciclo decorativo di una non meglio precisata basilica
romana di V secolo. Nell’Urbe ad essere illustrati sono soprattutto i passi di
Ap 4,5, addizionati a elementi ‘ricapitolativi’ riferibili ad Ap 1, 12, ad Ap
7,9 o ad Ap 14, 1. Per l’analisi morfologico-linguistica dei massimi testi
‘apocalittici’ connotativi della ‘politica delle immagini’ della Chiesa di Roma
nei secoli IV-IX, si rimanda ai contributi di S. Casartelli Novelli, I programmi decorativi degli edifici di
culto, in La comunità cristiana di
Roma. La sua vita e la sua cultura dalle origine all’Alto Medioevo, a cura
di L. P. Ermini e P. Siniscalco, Città del Vaticano 2000, 269-326; S.
Casartelli Novelli, A. Ballardini, Aula Dei claris radiat speciosa metallis.
I manifesti absidali della Chiesa di Roma mater ecclesia catholica, ispirati
“unicamente” all’immaginario dell’Apocalisse di Giovanni (IV-IX sec.), in Medioevo: immagini e ideologie,
V Convegno Internazionale di studi (Parma, 23-27 settembre 2002), Milano 2005,
pp. 145-164.
[14]
CHRISTE 2000, pp. 107-112; CHRISTE 2006, p.
278. Già verso la metà del VI secolo, i due Commentari di Primasio e Cesario di
Arles sono inclini a privilegiare l’interpretazione ‘presente’ delle immagini
esemplate su Ap 4,5.
[15] CHRISTE 1972, pp. 71-72.
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