Il complesso monumentale di S. Agnese fuori le Mura
A due chilometri
fuori dalle mura Aureliane, sulla Via Nomentana a nord-est di Roma, si colloca
la basilica di S. Agnese fuori le Mura, edificata da papa Onorio I (625 - 638)
sul piccolo sacello con altare venerato come luogo di sepoltura della martire
Agnese, nell’area cimiteriale della Nomentana. La circiforme doveva
essere collegata al sepolcro mediante una ripida scalinata che immetteva
sottoterra. Per lungo tempo gli studiosi hanno ritenuto che la basilica
costantiniana fosse sorta sulla tomba della martire. La proposta formulata nel
1946 da un archeologo tedesco, il Deichmann, sconvolse queste convinzioni. La basilica
circiforme risale con molta probabilità al 337 - 350, anni in cui Costantina visse a
Roma. Secondo il Liber Pontificalis
l’imperatore Costantino Magno, ascoltando le preghiere della figlia maggiore,
fece erigere un edificio in onore della vergine Agnese. Nel 335 Costantina
si unì in matrimonio al cugino Hannibalianus,
re del Ponto e di Cappadocia. Dopo la morte di Hannibalianus, sopraggiunta nel 337, ella tornò a Roma e, nel 351,
sposò il cugino Costanzo Gallo, elevato nello stesso anno al rango di Cesare
d’Oriente. Successivamente Costantina lo seguì nella città di Antiochia, in
Siria. L’imperatrice morì probabilmente in Bitinia nel 354. Le fonti narrano
che la morte la raggiunse durante il viaggio che doveva condurla dal fratello
Costanzo a Roma. Ammiano Marcellino scrisse che fu seppellita sulla via
Nomentana.[1] La struttura
costantiniana aveva delle dimensioni monumentali ed era molto più estesa di
quella onoriana che invece è organizzata su due livelli. Il primo, corrispondente
al pian terreno, era originariamente immerso nella collina ed è tuttora
comunicante con la catacomba; il secondo, con le gallerie del matroneo,
corrisponde essenzialmente al livello stradale.[2]
L’abside è orientata a sud-est e insieme al presbiterio risulta addossata al
fianco scavato del colle, mentre il corpo longitudinale si estende sull’area
spianata. La facciata della basilica, di contro all’abside, si rivolge a
nord-ovest verso il moderno spiazzo che confina con il colle.[3] La scalinata che
anticamente collegava l’atrio della basilica a deambulatorio con la tomba della
martire fungeva quindi l’accesso alla nuova struttura semipogea, situata ad
un livello più basso rispetto alla basilica costantiniana.[4] Come riferisce
Frutaz, dopo Onorio I l’edificio venne restaurato e arricchito da numerosi
pontefici e personaggi civili ed ecclesiastici: Adriano I (772 - 795), Leone III (795 - 816), Innocenzo III (1198 -
1216), Alessandro IV (1256), Paolo V (1614 - 1615), Benedetto XIII
(1728), Pio IX (1855 - 1856);
Carlo V, re di Francia (1373); i cardinali: Giuliano della Rovere (dopo il
1480), poi Giulio II, Alessandro Ottaviano de’ Medici (1600), poi Leone XI,
Paolo Emilio Sfondrati (1605 - 1606), Fabrizio Veralli (1620), Giacomo
Antonelli (1855 - 1856); la Soprintendenza ai Monumenti del Lazio e il Genio
Civile (1956 - 1958, 1971 - 74).
La decorazione musiva di S. Agnese f. l. m.
Il mosaico absidale di
S. Agnese presenta una composizione a tre figure che si stagliano contro un
fondo aureo. La martire, immobile e assorta al centro del catino, è affiancata da
due personaggi, abbigliati come presbiteri. Al vertice del catino absidale è
raffigurato l’empireo stellato, dal quale sporge la mano divina che regge una
corona sul capo della santa.[5]
Ai piedi di Agnese sono la spada e il fuoco. Al di sotto della decorazione si
trova la lunga iscrizione dedicatoria di Onorio I con lettere oro su fondo
azzurro. Nel sottarco, un festone di fiori e frutti si diparte da due vasi posti
a destra e a sinistra dell’abside e culmina in una croce dorata racchiusa in un
clipeo blu. Il festone è a sua volta incorniciato da una fascia decorativa
rossa e gemmata che racchiude l’intero mosaico.[6] Le tre figure si
ergono sopra un terreno erboso appena accennato da due fasce sovrapposte di diverse
tonalità di verde. Esse appaiono isolate l’una dall’altra ma legate nella
gestualità, nella postura e nell’atteggiamento. Il capo della
martire è circondato dal nimbo e dall’epigrafe SCĀ AGNES.[7]
Agnese porta un diadema, ha il volto incorniciato da perle pendenti e ha il
collo cinto da un preziosissimo collier
di perle. Ella indossa un abito piuttosto sontuoso, secondo un’iconografia
ricorrente attestata nei vetri dorati. La santa veste una pesante tunica
porpurea con maniche strette e scollo gemmato, che le copre completamente il
corpo lasciando nude solo le mani che sorreggono il rotulo, mentre la stola gemmata (maniakion) delle
imperatrici bizantine poggia sulle sue spalle e ricade in avanti come un loros o come un omophorion. Le vesti della santa
sono ornate da un clipeo entro il quale è inserito un uccellino – spesso interpretato
come una Fenice – e da una cornice quadrilobata entro cui è inserito un altro
volatile circondato da quattro boccioli di rosa.[8]
Accanto ad Agnese i due personaggi abbigliati come pontefici sono stati
interpretati come i committenti della basilica costantiniana e di VII secolo:
con Simmaco il personaggio con il libro e con Onorio I quello che regge il
modellino della chiesa. Questi indossano
l’abito pontificale: una dalmatica bianca clavata con penula di porpora violacea e pallio crociato. Ai piedi hanno calze
bianche (udones) e campagi neri. Le
loro teste sono state rifatte per intero nel corso del restauro ottocentesco, mentre
il volto di Agnese presenta probabilmente l’ovale originario. L’iscrizione musiva di
Onorio I, in caratteri d’oro su fondo azzurro, è divisa in tre riquadri da una
cornice dorata. Nella traduzione di Frutaz essa recita così:
Aurea sorge la
pittura per tagliati metalli
e lo stesso giorno è
qui avvinto e rinchiuso,
cosicché crederesti
che l’aurora da nivee fonti spunti
fra le nuvole
squarciate, irrorando di rugiada i campi,
ossia che tra i
pianeti Iride spanda la sua luce,
splendente del
colore del porpureo pavone.
Colui che poté
fissare la fine della notte e della luce
allontanò il caos
dalle tombe dei martiri.
Quanto si scorge qui
sopra con un’occhiata
questi dono votivi
il vescovo Onorio diede
e il suo volto si
riconosce dalle vesti e dall’opera.
Allieta i cuori col
solo aspetto. [9]
Negli esempi del V e
del VI secolo lo spazio dell’abside si era progressivamente affollato di
figure, ordinate secondo uno schema prevalentemente a sette elementi. Dalla
metà del VI ai primi decenni dell’ VIII secolo in alcune decorazioni absidali
il numero degli elementi si riduce sensibilmente fino ad accogliere una
composizione di tre figure, le
quali si assottigliano e diminuiscono di volume a fronte del fondo oro in cui
si perdono. La rarefazione delle masse corporee dei personaggi, ritenuta dalla
maggior parte degli studiosi il segno di un’inversione di rotta rispetto alla
prima pittura cristiana, si accompagna ad una semplificazione delle forme,
spesso isolate rispetto al contesto in cui sono inserite. È una rarefazione
che, a Roma, trova compimento nelle absidi di S. Eufemia (perduta), di S.
Stefano Rotondo, di S. Venanzio e di S. Agnese fuori le mura e che avvicina le immagini
riprodotte in questi luoghi alle icone bizantine. Il processo di «bizantinizzazione» di cui si
sta parlando si manifesta - oltre che con un alleggerimento del registro della
struttura compositiva - nell’esilità delle silhoulette
dei santi rappresentati nelle decorazioni, nella ricerca di atmosfere evanescenti,
nella scelta del fondo oro e nei tessuti eleganti, preziosi, che abbigliano i
personaggi.[10] Gli
studiosi pertanto parlano di una matrice orientale alla base di tali scelte
stilistiche e compositive.[11] A questo proposito, si deve tener conto della difficoltà a un inquadramento storico
di questo tipo dovuta all’assenza di confronti diretti pervenuti nell’area
greco - costantinopolitana. L’iconoclastia ha infatti distrutto la quasi
totalità delle testimonianze pittoriche e musive anteriori all’ VIII secolo.[12]
Gli unici raffronti possibili sono quelli con i riquadri storici di San Vitale,
le teorie di S. Apollinare nuovo, le decorazioni geometriche di S. Sofia e, in particolare,
i pannelli di S. Demetrio a Salonicco.[13]
Ancora oggi gli storici
dell’arte trovano una certa difficoltà nello stabilire se le forme orientali importate
a Roma nel secolo VII rispecchino fedelmente l’arte prodotta a Costantinopoli o
se siano piuttosto espressione di varianti provinciali.[14] Non si deve
dimenticare che Roma in questo frangente apparteneva all’Impero bizantino, direttamente dipendente dall’esarcato di Ravenna.[15] Si deve inoltre considerare
la confluenza e l’affermarsi di comunità monastiche di lingua e cultura
greca e l’avvicendamento sul soglio pontificio di una serie di pontefici greci
e siriaci, i quali, se non possono essere considerati gli unici artefici della
diffusione della cultura greca nell’Urbe, hanno probabilmente dato un’ulteriore
spinta alla diffusione della cultura orientale. Sono i papi, infatti, i
più convinti committenti di icone, di pitture murali e di mosaici con i quali Roma sosteneva
una convinta politica dell’immagine sacra in opposizione alle tendenze
iconoclaste di Bisanzio.[16] Nel
determinare il contesto storico medievale romano tra la metà del
secolo VI e l’avanzato secolo VIII occorre perciò esaminare attentamente - in tutte le
loro possibili relazioni e conseguenze - i seguenti fattori: in primo luogo la
presenza di stilemi di matrice orientale che vengono indicati in termini generali
quali «bizantini»; in secondo luogo si deve acquisire la
consapevolezza che entro la dimensione artistica definita «bizantina» albergano
linguaggi di origine diversa. E infine si
deve valutare l’assenza di confronti diretti con i quali rapportare questi
linguaggi a causa della controversia iconoclasta, scoppiata a Bisanzio tra il
726 e il 787.[17] Il
problema della presenza di una matrice bizantina nel mosaico di S Agnese, in ogni caso, sussiste e va affrontato in modo specifico.[18]
Per riuscirci è necessario partire da quegli indizi che sono apparentemente a favore di tale
orientamento stilistico: l’iconografia martiriale e la tecnica mista con
tessere vitree e lapidee messa in atto nella manifattura del mosaico.
La donna come
martire compare tardivamente nei programmi iconografici delle basiliche romane
e l’unica testimonianza che ci è pervenuta è proprio quella di S. Agnese.[19] Guglielmo Matthiae
fu uno dei tanti studiosi a sostenere la teoria di un «influsso bizantino» nel mosaico
onoriano adducendo come principale motivazione la presenza degli strumenti del
martirio ai piedi della santa, giudicati estranei all’iconografia di Agnese sviluppata
in Occidente. Secondo lo studioso, perfino l’immagine di s. Eufemia affiancata
dai serpenti, posteriore a quella di Agnese (687 -701), andava riallacciata alla tradizione orientale.[20] In tutte le
testimonianze pittoriche e musive anteriori al VII secolo finora pervenute in
Occidente la figura di Agnese appare spesso contraddistinta dall’immagine
dell’agnello - simbolo di verginità e di purezza – e dalla corona del martirio,
ma mai affiancata alle fiamme e alla spada, entrambe ricordate nelle passio orientali e nelle due principali
versioni occidentali: quella damasiana e quella ambrosiana.[21] Tuttavia, si deve
ricordare che nella decorazione di Sisto III (432 -440) in S. Maria Maggiore dovevano
già figurare alcuni santi martiri nell’atto di calpestare i propri simboli del
martirio, un tipo di iconografia trionfale desunta dall’immaginario
iconografico della Roma imperiale.[22]
La decorazione musiva di S. Agnese trova confronto con il mosaico che riproduce san
Lorenzo nella lunetta di fronte all’ingresso del mausoleo di Galla
Placidia (392 - 450) a Ravenna. Il santo è qui rappresentato con la croce
astile sulle spalle mentre incede verso una grande graticola lambita dalle
fiamme.[23] Il raffronto è utile
almeno per due motivi: entrambi i mosaici condividono l’impostazione del tema
del martirio inteso come gloria e trionfo. Inoltre, i personaggi hanno dei
caratteri iconografici in comune con alcune figurazioni rappresentate nei vetri
dorati, i fondi dei recipienti vitrei decorati con una sottile lamina
d’oro e rinvenuti in alcuni cimiteri romani.[24]
Dalle varie funzioni - rituali, liturgiche o decorative - i vetri
dorati accolgono le figure dei martiri più amati dai primi cristiani di Roma:
s. Agnese, san Lorenzo, s. Ippolito, s. Timoteo, papa Damaso e ovviamente
Pietro e Paolo.[25] Il pluteo databile
al pontificato di Liberio (352 - 366) - ritrovato nel complesso monumentale
della Nomentana - mostra per l'appunto la giovane santa orante secondo la
consuetudine iconografica dei recipienti vitrei con fondo d’oro, dove ella
compare inserita fra due santi, Pietro e Paolo o Vincenzo ed Ippolito. Questi ultimi e, in particolar modo, i recipienti con l’immagine della santa tra
i principi degli apostoli, possono aver ispirato l’assetto iconografico e
compositivo della decorazione musiva della basilica onoriana, così come i fondi
dorati con l’immagine di s. Lorenzo avrebbero potuto imitare quella contenuta
nella lunetta del mausoleo di Galla Placidia a Ravenna o viceversa. Se così
fosse, Simmaco ed Onorio sostituirebbero, nell’abside di S. Agnese, le immagini
di Pietro e Paolo ricorrenti nei vetri dorati.[26] Gli strumenti del
martirio raffigurati nel mosaico onoriano sono comunque assenti in questi
esempi di arte minore – o suntuaria – romana, nei quali la santa presenta
l’attributo del rotolo ed è inserita in un «fondo
stellato» appena accennato da due piccoli asterischi
reduplicati simmetricamente ai lati. La corona sorretta dalla
mano divina, rappresentata alla sommità del catino del mosaico di S. Agnese, è
invece elemento ricorrente nell’iconografia martiriale.L’attributo del rotulo si ritrova in alcuni dipinti
cimiteriali piuttosto tardi e nel vetro dorato con l’immagine di s. Agnese tra
i pavoni rinvenuto nelle catacombe di Panfilo.[27]
Il papa offerente il
modellino architettonico potrebbe essere ispirato al mosaico dei SS. Cosma e
Damiano (prima metà del VI secolo) e alle sue varianti successive.[28] Lo stile
del mosaico di S. Agnese è tuttavia distante da quello adottato nel modello, realizzato quasi un secolo prima e ancora
legato alle concezioni plastiche e formali tardo antiche.[29]
Tale distanza è evidente per chiunque osservi i due mosaici. Il grado di
astrazione che emerge dall’abside di S. Agnese tradisce l’apporto di un
linguaggio quantomeno esterno alla tradizione locale. Rispetto al mosaico della chiesa del Foro, la composizione di S. Agnese presenta la figura della martire al
centro e non ai lati del catino, come sarebbe di consuetudine in questo tipo di
iconografia. In effetti mentre tutte le absidi romane sono decorate con
teofanie - nelle quali a volte si inseriscono i santi titolari – nell’abside
della basilica onoriana la martire prende il posto del Cristo al centro del
catino e diviene la sola protagonista della composizione. Tale scelta iconografia può essere messa in relazione con la tipologia architettonica della
basilica ad corpus adottata nel
monumento che è, di fatto, un edificio commemorativo. Gli studi
sull’iconografia dei martiri hanno peraltro dimostrato come l’immagine del
santo eretta o a mezzo busto entro il clipeo, orante o in atto di portare una
croce, avesse avuto origine nell’ambito della tomba-santuario, per conservane
l’immagine accanto alle sue reliquie.[30] La composizione quindi costituisce un altro punto di separazione tra le due
decorazioni. Separazione che comunque, per tutte le ragioni sopra elencate, non deve essere letta necessariamente come una
frattura rispetto alla maniera locale[31]
Nel mosaico
voluto da papa Onorio I (625 - 638) le scelte iconografiche sembrano complicarsi rispetto
alle altre decorazioni absidali romane, poiché vi compaiono, per la prima volta,
due papi committenti.[32]
Chi sono i due pontefici?
Vi sono diverse
congetture riguardo all’identità del personaggio con il libro, dai più ritenuto
papa Simmaco, colui che aveva promosso diversi lavori nella basilica
costantiniana e forse ricordato nella sua decorazione.[33]
L’altro pontefice è con molta probabilità Onorio I, menzionato nell’ iscrizione
musiva come il committente della moderna basilica di S. Agnese e del mosaico
che la decora.
La tecnica mista di
tessere vitree e lapidee utilizzate per comporre il mosaico, è stata
considerata da alcuni studiosi come un’ ulteriore traccia della presenza di
maestranze bizantine o orientali nel cantiere onoriano. A questo proposito si
deve ricordare che anche i mosaici che decorano le volte dell’ambulacro anulare
del mausoleo costantiniano intitolato a S. Costanza, sono costituti in parte di
tessere di palombino e in parte di smalti, sebbene il suo originario paramento
musivo risalga interamente al IV secolo d. C..[34] Il mosaicista di S.
Agnese ha composto con tessere di palombino molto piccole il collo e il volto
della santa, rinunciando alla rotondità del viso e alla sua modellazione
attraverso graduali passaggi di colore che ancora si notano nelle figure di S.
Apollinare nuovo a Ravenna e in quelle di Salonicco.[35]
Tuttavia nel rotulo, nelle vesti e
nelle mani di Agnese i toni dei filari delle tessere sono più modulati. I particolari
dell’acconciatura e della corona sono talmente simili a quelli dello scollo,
della stola - rimaneggiata durante il restauro ottocentesco - e del nimbo da
escludere comunque l’ipotesi che il volto sia stato realizzato da un secondo
mosaicista. L’artefice del
mosaico di S. Agnese adotta spesso nel panneggio delle figure una linea retta e
rigida, che unisce brevi curve e costruisce le immagini attraverso linee
spezzate. La linea morbida e fluida che determina alcuni brani delle vesti di
Onorio e della santa potrebbe davvero tradire una «mano» diversa da quella dell’antico
mosaicista. Proprio il gusto della linea spezzata denuncerebbe, secondo il
Matthiae, la presenza del grafismo locale nello stile prevalentemente «bizantino» della decorazione, esemplificato dalle tessere a foglia metallica del fondo d’oro, dai
contorni netti delle figure e dalla ricerca quasi parossistica del dettaglio
prezioso nei suntuosi tessuti della santa e dei pontefici.[36]
Anche in questo caso tuttavia la perdita del confronto diretto con l’arte
musiva di Costantinopoli del VII secolo non aiuta a stabilire se le
impressioni dello studioso – basate prevalentemente sul confronto della
decorazione con i mosaici ravennati e tessali – rimangano solamente delle ipotesi
o diversamente corrispondano alla realtà.
Per concludere, nel
mosaico dell’abside di S. Agnese il processo di astrazione e di
smaterializzazione degli elementi raggiunge un estremo mai raggiunto nelle
decorazioni absidali dei secoli precedenti. Al di là delle molteplici teorie
degli studiosi sull’identità bizantina del mosaico - e più in generale sulla
possibile attività di maestranze bizantine a Roma nel secolo VII alla quale si
è fatto cenno - non si può non riconoscere nel cantiere
onoriano la presenza di un’elaborazione artistica orientale. Questa matrice
orientale non permea del tutto la sostanza pittorica della decorazione, che in alcuni
suoi brani - soprattutto nel volto della santa, una sorta di «maschera inerte»[37] - sembra rimanere ancorata alla tradizione pittorica
romana e a quello stile compendiario adottato in alcuni affreschi delle
catacombe. Nonostante ciò s. Agnese è un’immagine intensamente iconica. Nel
mosaico, la santa non interagisce con gli altri personaggi ma rimane isolata.
Tutt’al più ella comunica direttamente con chi la osserva e ciò l’avvicina
stilisticamente e concettualmente a una vera e propria icona.[38]
I restauri
Nei primi anni del Novecento, Guglielmo Matthiae, oltre a ricordare i restauri ottocenteschi, rilevò i diversi interventi subiti dalla decorazione musiva intorno al 1614, anno in cui viene fatto risalire il
ciborio dell’altare maggiore (1605-1621). [39] Nel tentativo di ricostruire lo stato
di conservazione della decorazione, De Rossi, nel XIX secolo, si servì del codice
XI, 197, fascicolo numero 173, conservato nella biblioteca Barberini, che contiene la «Memoria della restaurazione della fabbrica di S. Agnese fatta dal
cardinale di Firenze» Alessandro Medici (1605). De Rossi evidenziò come nella suddetta "memoria" non si facesse menzione dei lavori all'abside e come l’immagine di papa Onorio «nunc prae
vetustate vix vultus discernitur» (f. 165). Quindi, intorno al 1603 e prima dello
studio del monumento effettuato da Ciampini (1701), il volto di papa Onorio era a malapena distinguibile ma, a quanto pare, ancora visibile. [40]
Nell’ultimo decennio del secolo XVII, Ciampini scrisse «… Pontificum vultus pictura fuisse suppletos,
quia musivum deciderat, quod lineis indicare volui, ut in ipsomet apparet
musivo.».[41] Nella sua opera Vetera Monimenta, egli fece inserire una tavola che registrava
lo stato di conservazione del mosaico onoriano, nella quale delimitava le teste dei due pontefici con una linea chiusa, interpretata da Domenico Bartolini (1858) come traccia di nimbi quadrati. Ciampini rilevò come i volti
dei pontefici fossero stati colmati a pittura poiché la superficie di mosaico
che li costituiva era caduta, senza specificare quando e come avvenne il
risarcimento pittorico. Alla luce di tutte queste informazioni, deduciamo che
molto probabilmente il volto di Onorio I nel 1603 era abbastanza deturpato e
che il mosaico tra il 1603 e il 1605 non fu toccato; ai tempi di Ciampini,
invece, le due teste furono rifatte in pittura. Tra il 1603 e il 1699, la
basilica subì verosimilmente dei restauri: dal cardinale Paolo Emilio Sfondrati
(1605-1606), come ricordava il Matthiae dal pontefice Paolo V (1614-1615), e da
Fabrizio Veralli (1620).[42]
Il mosaico venne poi largamente ripristinato negli anni Quaranta del Novecento, durante la campagna di interventi ai mosaici medievali condotta da Vincenzo Camuccini. Nel "conto e misura" dell’agosto 1842 è esplicitato che in alcuni tratti del mosaico
gli operatori dello studio vaticano del mosaico incontrarono delle aree «già supplite con intonaco» dipinto. A questo riguardo, Matthiae scrisse che le possibili «alterazioni iconografiche si limitano ai visi dei papi
che non possono vantare nessuna rispondenza con l’originale».[43]
Entrambe le teste dei due pontifici furono rifatte per intero assieme ad
alcuni brani delle vesti sottostanti e del contiguo fondo oro; da una
attenta osservazione del mosaico si nota inoltre come le teste presentino dei caratteri
molto simili seppure non identici. In particolare, Simmaco mostra un ovale meno rigido, toni
modulati nelle vesti e nell’incarnato e una più corretta anatomia del volto
rispetto a Onorio, le cui fattezze sono invece determinate da una netta linea
di contorno e da diverse modulazioni cromatiche che maggiormente lo uniformano
allo stile adottato dall’antico mosaicista, ancora visibile in
alcuni brani del capo della santa, mai toccato durante la campagna del
Camuccini.
[1] BRANDENBURG 2004, pp.
241 - 242.
[2] KRAUTHEIMER 1937, pp. 30
- 34.
[3] KRAUTHEIMER 1937, p. 18.
[4] BRANDENBURG 2004, p. 241.
[5] Cfr.
BISCONTI 2002, p. 180; ANDALORO 2000, pp. 34-36.
[6] Cfr. GALASSI 1953, pp. 203 - 205.
[7] Cfr. DE ROSSI
1899, pp. 69 - 71; CIAMPINI 1701, pp. 103 - 106; FRUTAZ 1969, p. 67;
BRANDENBURG 2004, p. 247.
[8] Il mito della Fenice deriva dall’Oriente e fu
introdotto in Occidente da Erodoto, per esemplificare i concetti di palingenesi
e di eternità. Tale immagine fu assunta dalla simbolica paleocristiana per
esprimere il mistero della resurrezione della carne - come ricordano alcuni
passi di Clemente Romano, Tertulliano e Ambrogio –di castità e di verginità,
secondo il pensiero di Rufino. Nell’arte paleocristiana la Fenice appare
precocemente – in alcune lastre cimiteriali, che la vedono provvista di nimbo e
raggi - come simbolo di resurrezione. L’immagine appare in un marmo proveniente
dalla catacombe di S. Callisto e in una incisione di Priscilla. Essa è spesso
collegata alla palma con la quale condivide la denominazione in lingua greca ed
appare spesso nelle scene di Traditio
legis. Il simbolo della Fenice è visibile nelle decorazioni absidali delle
basiliche medievali di Roma e del Lazio - come quella dei SS. Cosma e Damiano -
e appare anche nei vetri dorati del Vaticano e in altre testimonianze dell’arte
paleocristiana verosimilmente legate nell’iconografia all’antico modello del
mosaico absidale di San Pietro – ricalcato in parte nella nuova edizione di
Innocenzo III (1198 - 1216) - che probabilmente la vedeva riprodotta accanto
alla palma e all’immagine di Paolo, il più convinto «assertore del dogma della Resurrezione». BALLARDINI 2004, p. 32. In particolare per la
distruzione dell’abside dell’antico S. Pietro e la tradizione iconografia del
mosaico innocenziano si legga BALLARDINI 2004, pp. 7 - 80. Per l’iconografia della
Fenice si legga BISCONTI 2000, p. 180. Per la descrizione dell’abbigliamento di
Agnese cfr. FRUTAZ 1969, p. 68; MATTHIAE 1967, p. 172.
[9]AUREA CONCISIS SVRGIT PICTURA METALLIS/ET COMPLEXA
SIMVL CLAVDITUR IPSA DIES/FONTIBVS E NIVEIS CREDAS AVRORA SVBIRE/CORREPTAS
NVBES RORIBVS ARVA RIGANS/VEL QVALEM INTER SIDERA LVCEM PROFERET
IRIM/PVRPVREVSQUE PAVO IPSA COLORE NITENS/QVI POTVIT NOCTIS VEL LVCIS REDDERE
FINEM/MARTYRVM E BVSTIS HINC REPPVLIT ILLE CHAOS/SVRSUM VERSA NVTV QVOD CVNCTIS
CERNITVR VNO/PRAESVL HONORIUS HAEC VOTA DICATA DEDIT/VESTIBUS ET FACTIS
SIGNANTVR ILLIVS ORA/LVCET ET ASPECTV LVCIDA CORDA GERENS. Nel componimento
poetico dell’iscrizione sono evocati l’aurora, l’arcobaleno e il pavone.
Probabilmente il testo voleva alludere all’oscurità della basilica, che
riceveva l’illuminazione quasi esclusivamente dall’alto. I versi evocano l’effetto
della luce sul mosaico che, riflettendosi sulle tessere, determinava un effetto
quasi soprannaturale. L’illuminazione è, del resto, un aspetto importante
dell’estetica paleocristiana e medievale, per l’alto valore simbolico che
possiede. Cfr. DE VECCHI - CERCHIARI 2005, pp. 268 - 271; ADORNO 1998, pp. 418 -
419; FRUTAZ 1969, pp. 66 - 68; LADNER 1941, p. 79; DE ROSSI 1899, pp. 69 - 71;
per il componimento onoriano confronta anche LONGHI 1950, pp. 7 - 8.
[10] ANDALORO 2001, p. 122; ANDALORO - ROMANO 2002, pp. 93
- 124.
[11] Cfr. ANDALORO 2002, p. 83
[12] Cfr. MONTANARI 2002, pp. 179 - 180; PASSARELLI 2002, pp. 21 - 40;
OSTROGORSKY 1993, p. 158.
[13] L’incendio
del 1917 ha distrutto parte della decorazione musiva del santuario di S. Demetrio a Salonicco, risparmiando i pannelli
che si trovano sui pilastri all’entrata della basilica. Essi erano stati
realizzati dopo il primo rogo che l’edificio subì nel 634. Tre dei
pannelli risalgono alla metà del VII secolo, e rappresentano s. Sergio, s.
Demetrio tra due personaggi barbuti, e s. Demetrio con due fanciulli. Per la
loro realizzazione l’artefice ha utilizzato delle tessere minute, disposte con
una certa irregolarità. Tali figure sono state pertanto associate da alcuni studiosi a
quelle più o meno contemporanee di S. Agnese fuori le mura e dell’oratorio di
San Venanzio in Laterano. Per gli altri confronti si legga BETTINI 1939, pp. 45
- 49; ADORNO 1998, pp. 463 - 478; LAVAGNINO 1949, pp. 171 - 172; MATTHIAE 1967,
p. 173.
[14] In questo senso, si potrebbe dubitare perfino della
reale «bizantinità» dei riquadri storici di San Vitale a Ravenna, realizzati in piena età giustinianea e quindi
ritenuti dagli storici dell’arte un autentico prodotto dell’arte bizantina.
Cfr. MATTHIAE 1987, pp. 128 - 132.
[15] Con il progetto di renovatio imperii formulato dall’imperatore Giustiniano (527 - 565) Roma
divenne un possedimento bizantino. Dopo la guerra «greco - gotica» (535 - 553) seguì, nei territori conquistati,
l’introduzione della legislazione giustinianea. Alla fine del VI secolo, con
l’imperatore Maurizio, l’insieme dei territori rimasti sotto il controllo
bizantino – fra i quali vi era il Lazio e la città di Roma – subirono una
riorganizzazione amministrativa. L’imperatore affidò ad un esarca, con sede a
Ravenna, tutte le funzioni pubbliche, amministrative, civili e militari da
esercitare sui possedimenti bizantini della penisola. Solo la Sicilia venne governata direttamente da Bisanzio. Il dominio dell’esarca su questi territori,
tuttavia, rimase soltanto sul piano teorico: egli esercitò un effettivo potere
solamente nell’attuale Romagna e nelle Marche settentrionali. Nel ducato
romano, inoltre, l’autorità del pontefice entrò presto in conflitto con il
dominio bizantino. Cfr. MONTANARI 2002, pp. 30 - 37.
[16] Cfr. ANDALORO 2001, p. 127.
[17] Cfr. ANDALORO 2001, p. 117.
[18] Gli studiosi sono ancora incerti sull’argomento. Alcuni ritengono che la decorazione musiva di S. Agnese sia ricca di
inflessioni orientali e bizantine. Il Matthiae e l’ Andaloro, in particolare,
assumono una posizione intermedia tra la visione totalmente bizantineggiante
dei primi studi e le idee di Kitzinger, che considerava il mosaico un prodotto
dell’arte romana autonoma. Cfr. CECCHELLI 1924, p. 46; VENTURI 1926, pp. 8 - 58;
LADNER 1941, pp. 78 -80; ANDALORO 2002, pp. 23 - 26, 83 - 88; BETTINI 1939, pp.
45 - 53; GALASSI 1953, pp. 203 - 212; BARTOLINI 1858, pp. 122 -135; RONCALI
1908, p. 13; LAVAGNINO 1949, pp. 168 - 175; GANDOLFO 2002, pp. 139 - 149;
MATTHIAE 1987, pp. 81 - 92, 128 - 132, 171; MATTHIAE 1967, pp. 169 - 177.
[19] S. Ambrogio (334 - 397) esaltava Agnese come vergine
nel suo trattato De virginibus,
scritto intorno al 377 e dedicato alla sorella Marcellina che tra il 352 e il
354 aveva preso il velo verginale. Agnese è insieme vergine e martire, e tale connubio spiegherebbe in
parte il motivo per il quale il suo culto ebbe un così precoce sviluppo. La
verginità consacrata è al grado più alto dei ruoli previsti da parte dei Padri
della Chiesa nel IV-V secolo. L’immagine di sant’Agnese diviene ben presto
simbolo di questo stato ed emblema
di un ideale di vita lontano da quello pagano. Cfr. CALCAGNINI 2002, p. 1938;
FRUTAZ 1969, pp. 11 - 16.
[20] Le pene corporali inflitte mediante il fuoco - il vivicomburium o la “pena delle fiaccole”
- e la spada - la decapitazione o la iugulazione - trovano riscontro nella
versione greca, nella passio latina,
nella passio greca, nella versione
siriaca e nelle due versioni del martirio di Agnese elaborate da Damaso (366 - 384)
e da Ambrogio (334 - 397). FRUTAZ 1969, pp. 20 -21.
[21] Nei primi secoli del cristianesimo è totalmente
assente qualsiasi allusione iconografica al martirio violento. L’immaginario
martiriale stenta ad affermarsi sia per il carattere ottimistico della prima
arte cristiana, sia per la sobrietà delle prime sistemazioni delle tombe dei
martiri. Con papa Damaso si ebbe una progressiva monumentalizzazione dei sepolcri,
adornati con iscrizioni in caratteri filocaliani rievocanti le gesta
salienti dei santi durante il martirio. Presso le tombe dei «testimoni della fede cristiana» più amati sorsero delle basiliche circiformi, veri e propri cimiteri al coperto, decorate
in maniera molto sobria. Questo è accaduto anche nel complesso monumentale di
S. Agnese. Forse nell’abside della basilica circiforme del complesso nomentano
fu rappresentata la santa titolare isolata, sul modello di un affresco
conservato nelle catacombe di Commodilla. Un’altra ipotesi, formulata da
Fabrizio Bisconti in merito alla decorazione della basilica costantiniana,
prevede l’esistenza di un triforio, poi perduto, che doveva essere originariamente
decorato con l’immagine della santa fra Pietro e Paolo, in linea con la
politica religiosa intrapresa da Damaso, volta a ribadire l’unità delle chiese
attraverso il concetto di concordia
apostolorum e mediante il culto dei martiri. Secondo lo studioso i vetri dorati, spesso
utilizzati nella decorazione dei loculi, dovevano proprio
ispirarsi a questo tipo di iconografia monumentale. Cfr. BISCONTI 2005, pp. 33 -
46; BISCONTI 2002 b, p. 184; MATTHIAE 1967, p. 170; FRUTAZ 1969, pp. 24 - 27;
BISCONTI 2002 c, pp. 1633 - 1653; cfr. anche BISCONTI 1995, pp. 247 - 292; TORELLI
2002, pp. 1097 - 1108.
[22] In origine, nella controfacciata della basilica di
Santa Maria Maggiore figurava un’iscrizione dedicatoria, oggi dispersa, ma in
parte ancora visibile nel XVI secolo: «Vergine Maria, a te io Sisto ho dedicato un nuovo
tempio, degna offerta al tuo ventre salvifico. A te genitrice ignara dell’uomo,
a te, infine, che avendo partorito, hai generato dalle tue viscere intatte la
nostra salvezza. Ecco, i testimoni del tuo utero portano a te i premi e sotto i
loro piedi è posto lo strumento della passione di ognuno: ferro, fiamma, belve,
fiume e tremendo veleno. Mentre sono tante queste (forme) di morte, una sola è
la corona». Vedi MENNA 2006, p. 343; DE
ROSSI 1899.
[23] Galla Placidia (392 - 450) era figlia dell’imperatore
Teodosio I. Dopo la morte di suo fratello, l’imperatore Onorio I, avvenuta nel
423 d.C., assunse le redini dell’Impero in nome del figlio Valentiniano III - ancora
troppo giovane per regnare - e pertanto si trasferì da Costantinopoli a
Ravenna. Cfr. SIRAGO 2003, p. 9; BOVINI 2003, p. 54.
[24] Cfr. BISCONTI 2002 a, p. 80.
[25] Cfr. BISCONTI 2002 a, p. 80.
[26] Cfr. BISCONTI 2002 b, pp. 177 - 193.
[27] Cfr. BISCONTI 2002 a, pp. 80 - 81.
[28] Cfr. GANDOLFO 2002, pp. 139,143; GANDOLFO 2004, pp. 13 - 14.
[29] Sull’argomento cfr. BRANDENBURG 2004, p. 248;
GANDOLFO 2002, p. 143.
[30] Cfr. MATTHIAE 1967, p. 169.
[31] Cfr. ANDALORO 2002, pp. 23 - 26,83; BISCONTI 2002 b,
pp. 177 - 193
[32] Vedi GANDOLFO 2002, p. 143; GANDOLFO 2004, pp. 15 - 17.
[33] Cfr. BRANDENBURG 2004, p. 247; GANDOLFO 2002, p. 144; GANDOLFO 2004,
p. 16.
[34] Questa
informazione è tratta dai documenti conservati nell’ A.S.R.: ASR,
CAMERLENGATO P. II, tit. IV, Antichità e belle Arti, B 186.
[35] Il palombino è un calcare dolomitico (roccia
sedimentaria carbonatica) originatosi per compattazione (litificazione) di un
fango carbonatico. La grana della roccia è molto fine (micrite). I costituenti
mineralogici fondamentali del litotipo sono calcite (carbonato di calcio) e
dolomite (carbonato di calcio e magnesio), dai quali deriva il colore bianco
della roccia. Costituenti minori sono ossidi e/o idrossidi di alluminio e
minerali argillosi. Il palombino venne diffusamente impiegato dai Romani
dall'epoca repubblicana fino a quella imperiale. La provenienza di questo
materiale è ancora incerta. Allo stato attuale delle conoscenze, si ipotizza
che l'area estrattiva di questa pietra ornamentale fosse ubicata nella Frigia,
antica regione dell'Asia Minore (l'attuale Turchia). Cfr. BERGAMINI - FIORI
1996, p. 68; MATTHIAE 1967, pp. 175 - 176; sulla provenienze e sulla
composizione del palombino si consulti il sito web: http://www.museo.apat.it.
[36] Cfr. MATTHIAE
1967, pp. 176 - 177.
[37] MATTHIAE 1967, p.
175.
[38] Cfr. ANDALORO 1987, pp. 246 - 247, 255
- 256; VELMANS 2002, pp. 14 - 20.
[39] MATTHIAE 1967, p. 412.
[40]
DE ROSSI 1899, pp. 69 - 71; cfr. LADNER 1941, pp. 78 - 80.
[41] CIAMPINI 1701, p. 106.
[42] FRUTAZ 1969, p. 49.
[43] MATTHIAE 1967, p. 412.
Ciao! A quale testo di Bisconti ti riferisci nelle note? Grazie!
RispondiEliminavorrei sapere i titolo dei testi di Bisconti… Grazie!!
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