La tavolozza
di Renoir era pulita “come una moneta nuova di zecca”. Era una tavolozza
quadrata, incastrata sul coperchio di una cassetta della stessa forma. Su un
tavolo basso, vicino al cavalletto, c’era un bicchiere pieno di trementina, in
cui risciacquava il pennello dopo ogni pennellata, o quasi. Nella cassetta e
sul tavolo teneva alcuni pennelli di ricambio, ma non ne usava mai più di due o
tre per volta. Quando iniziavano a consumarsi, quando sbavavano sulla tela o
quando per qualsiasi motivo non garantivano più l’assoluta precisione della
pennellata, li gettava via. Sul tavolo c’era anche qualche straccio pulito, su
cui ogni tanto metteva i pennelli ad asciugare. La cassetta e il tavolo erano
sempre in perfetto ordine, e i tubetti di colore ben arrotolati dal fondo, in
modo che bastava premerli leggermente per ottenere la quantità di colore
desiderata. Per pulire la tavolozza la raschiava, poi puliva il raschietto con
un pezzo di carta che subito gettava nel fuoco e la sfregava con uno straccio
imbevuto di trementina, finché sul legno non rimaneva più nessuna traccia di
colore. Infine gettava nel fuoco anche lo straccio. Lavava i pennelli con acqua
fredda e sapone, e a volte incaricava me di lavarli, cosa di cui andavo fiero. Col
passare degli anni mio padre aveva semplificato sempre di più la tavolozza , […]
e ormai i grumi di colore sembravano perdersi sulla superficie del legno, tra
gli spazi vuoti. Renoir vi attingeva con parsimonia, con rispetto. Gli sarebbe
sembrato di offendere Mullard, che aveva triturato il colore minuziosamente, se
ne avesse usato troppo, senza adoperarlo fino all’ultimo [ …]. Non amava le
tele fini, perché erano morbidi da dipingere, ma poco resistenti. Questa era la
motivazione apparente, ma poi ce n’era un inconscia: la sua ammirazione per il
Veronese, Tiziano e Velázquez, che sembrava dipingessero su tele dalla trama
piuttosto grossa. De resto le due motivazioni andavano di pari passo, perché
mio padre era convinto da un lato che quei grandi maestri volessero cerare
opere eterne, dall’altro che i suoi quadri non sarebbero stati capiti prima che
fosse passato almeno mezzo secolo. Amava dire: “vorrei poter nascondere le mie
tele e chiedere ai miei figli di metterle da parte per molto tempo, prima di
esporle al pubblico”. Sperava che le sue opere vivessero tanto a lungo da poter
esser giudicate in un momento più favorevole. Quarant’anni dopo la sua morte,
possiamo dire che il suo desiderio è stato esaudito.
Jean Renoir
(da J. Renoir, Pierre-Auguste Renoir, mon père, Parigi-Londra 1962).
Pierre-Auguste
Renoir, Il Ballo in città, part. ,
1883, Parigi, Musée d’Orsay.
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